Può accadere che un lavoratore sia sottoposto ad un processo penale e che le condotte poste in essere dal dipendente, pur di per sé estranee al rapporto lavorativo, siano in ogni caso tali da ledere il rapporto fiduciario intercorrente con la controparte datoriale.
Comportamenti illeciti di un lavoratore, sebbene lontani dal contesto dell’impresa, possono costituire la base di un licenziamento per giusta causa: al riguardo, non è tanto rilevante la qualificazione del fatto dal punto di vista strettamente penale, ma occorre che i fatti addebitati al dipendente rivestano il carattere di negazione degli elementi del rapporto di lavoro, con particolare riguardo all’elemento essenziale della fiducia, tanto che la condotta antigiuridica posta in essere dal lavoratore sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza nell’adempimento della prestazione lavorativa.
Va aggiunto che l’art. 654 del codice di procedura penale impone di ritenere accertati, anche all’interno del giudizio civile circa la lamentata illegittimità della condotta del lavoratore, gli stessi fatti materiali ritenuti rilevanti nel precedente giudizio penale conclusosi con una sentenza di condanna definitiva.
Occorre tuttavia evidenziare che il giudizio datoriale circa l’illegittimità della condotta del lavoratore è distinto ed autonomo rispetto al giudizio penale.
In tal senso, un’eventuale dilatazione “sine die” dei tempi penali potrebbe determinare il rischio, in capo al datore di lavoro, di perdere il requisito dell’immediatezza del licenziamento, dinanzi ad una condotta che lede in modo non più ricomponibile il vincolo fiduciario e che è già visibile, a prescindere dal giudicato penale definitivo.
La Cassazione in numerose pronunce ha evidenziato che la condotta eventualmente tenuta dal datore di lavoro, il quale procrastina lungo il tempo la propria reazione disciplinare nei confronti dell’illecito commesso dal proprio lavoratore, pur essendo già presente la piena consapevolezza dell’illecito, sarebbe incompatibile con la giusta causa di licenziamento, sia a livello logico, sia a livello giuridico (Cass. Civ. Sentt. nn. 15467/2004, 15383/2004, 16754/2003).
Ciò proprio perché verrebbe meno il requisito essenziale dell’immediatezza della reazione datoriale, dinanzi alla condotta illecita del dipendente.
Inoltre, una condotta posticipatoria del datore di lavoro violerebbe anche i principi di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 del codice civile, in quanto non è consentito prolungare indefinitamente il rapporto lavorativo, con la prospettiva che si potrebbe concretizzare in futuro una sanzione disciplinare espulsiva in capo al lavoratore; né è consentito porre sotto osservazione il lavoratore per rinvenire, in ipotesi, nella successiva condotta posta in essere dal medesimo, ulteriori elementi utili ad un’accusa ed all’irrogazione di un licenziamento per giusta causa.
A tali declaratorie occorre aggiungere, tuttavia, un’argomentazione parzialmente “a contrario”: se è vero che la reazione datoriale deve essere immediata dinanzi ad un illecito, è altrettanto vero che gli esiti di un giudizio penale potrebbero far emergere un insieme di atteggiamenti del lavoratore, che prima della pubblicazione della sentenza penale di condanna non erano pienamente ravvisabili.
In tal senso, la Suprema Corte, con Sentenza n. 9963 del 2003, ha avuto modo di chiarire che, nel caso in cui un fatto addebitato al lavoratore risulti oggetto di accertamento all’interno di un procedimento penale, il datore di lavoro che non sia pervenuto ad una sicura e puntuale verifica circa l’accertamento di colpevolezza del dipendente, è legittimato ad attendere, ai fini dell’irrogazione dell’eventuale licenziamento per giusta causa, la definizione del predetto giudizio penale. Infatti, in tal caso non sussiste una violazione del principio dell’immediatezza della contestazione, in quanto potrebbero essere le scelte processuali del dipendente a dimostrare “ex post” l’indoneità a far acquisire la consapevolezza, in capo al datore di lavoro, circa le responsabilità del prestatore d’opera.
Quanto sovra vale per il rapporto di lavoro privato.
Identiche considerazioni non possono essere svolte nel caso di rapporto di lavoro pubblico, risultando numerosi casi di licenziamenti di dipendenti della pubblica amministrazione dopo molto tempo dalla pubblicazione di una sentenza penale di condanna nei loro riguardi ed, in ogni caso, mai sussistendo un automatismo tra giudicato penale e misura espulsiva datoriale.
La Corte Costituzionale ha evidenziato (cfr. Sentenze nn. 971/1988 e 197/1993) che nel rapporto di pubblico impiego non possono essere comminate sanzioni disciplinari, men che meno il licenziamento, se prima non si dia vita ad un procedimento “ad hoc” nei confronti del dipendente, a prescindere dalla condanna penale già irrogata.
Solo in sede di procedimento disciplinare “postumo” si celebrerà il miglior esercizio dei poteri disciplinari da parte della pubblica amministrazione: in tal senso, la Suprema Corte ha evidenziato (con Sentenza n. 1923/2014) che l’attesa di una sentenza irrevocabile di condanna permette alla pubblica amministrazione di fondare l’inizio di un procedimento disciplinare ai danni del dipendente, sovra una conoscenza del fatto in tutte le sue componenti, materiali e giuridiche, in quanto il “fatto” da considerare, per valutarne le conseguenze sul piano disciplinare, è il “fatto-reato”, comprensivo anche dell’elemento psicologico. E tale fatto viene compiutamente accertato con la sentenza che conclude il processo.