La scorsa estate, seppur travagliata dalle limitazioni sanitarie, pur temporaneamente allentate, ha visto l’allestimento di alcune meravigliose mostre d’arte.
A Londra si è celebrata, presso il Foundling Museum, l’interessante esposizione “Portraying Pregnancy” con la gravidanza come tematica centrale, spaziando tra le opere che celebravano le imminenti nascite di rampolli regali e nobiliari, e rappresentazioni più “borghesi”, come la notissima fotografia della cantante Beyoncè, tra le più “cliccate” della storia di Instagram.
Particolare interesse suscita il dipinto La marcia delle guardie a Finchley del 1750, realizzato da William Hogarth, nel quale l’artista britannico, molto abile nell’usare la satira in rappresentazioni di stampo politico e sociale, raffigura l’esercito regio marciare tra le strade londinesi, diretto appunto verso il sobborgo di Finchley, per sedare un’insurrezione della fazione dei giacobiti, che rivendicava il ripristino della famiglia di Giacomo II Stuart sul trono inglese.
Il pittore tratteggia un esercito dissoluto e lascivo, che marcia senz’ordine accogliendo benevolmente popolani tra le proprie fila e non disdegnando le gioie del vino e della carne nonostante l’austerità della divisa.
E tra la folla si fa largo una donna incinta, probabilmente abitante nel sobborgo attraversato dalla milizia regia, che pare proprio “litigarsi” l’attenzione di un aitante soldato con un’altra donna del quartiere, di certo con finalità rivolte non allo studio delle migliori strategie militari.
La tematica della gravidanza è al centro anche di un’importantissima pronuncia resa qualche giorno fa dalla Suprema Corte.
Si tratta della Sentenza n. 653 del 15 gennaio 2021, resa dalla Terza Sezione Civile della Cassazione.
Due coniugi fecero causa nei confronti di un ginecologo e di un ospedale, per sentirli entrambi condannare al risarcimento dei danni che assumevano derivanti sulla base di due ordini di fattori:
- quanto al ginecologo, costui aveva seguito la donna incinta durante l’intera gravidanza (sia nel proprio studio che presso il polo ospedaliero); ebbene, egli non l’aveva adeguatamente informata sui rischi per il feto correlati ad un’infezione da citomegalovirus (CMV) da essa contratta, in modo da consentirle di interrompere la gravidanza,
- quanto alla sola struttura ospedaliera, la stessa doveva rispondere sia per responsabilità oggettiva (avendo il ginecologo un rapporto professionale con la stessa) sia per l’ulteriore fatto che il parto con taglio cesareo era stato effettuato dopo un prolungato e inusuale travaglio che aveva comportato una sofferenza fetale.
La signora, giunta alla ventiduesima settimana di gestazione – si era rivolta al proprio ginecologo chiedendogli se non fosse necessario o opportuno interrompere la gravidanza in relazione alla possibilità di partorire un bambino affetto da gravi malformazioni.
Il professionista l’aveva rassicurata, escludendo categoricamente l’esistenza di rischi e affermando, comunque, l’impossibilità di ricorrere all’aborto terapeutico, dato che erano decorsi i termini di cui alla Legge n. 194/1978 e che non erano emerse malformazioni del feto.
Purtroppo, dopo un travaglio protrattosi per ben ventiquattro ore, la donna diede alla luce il figlio con gravissime lesioni cerebrali conseguenti a calcificazioni nervose.
Come evidenzia l’Istituto Superiore di Sanità (qui), il citomegalovirus (CMV) è “un’importante causa di patologie fetali, anche gravi se trasmesso al feto durante la gravidanza; infatti risulta essere la principale causa di infezione congenita nei Paesi sviluppati, con un’incidenza compresa tra lo 0,3% e il 2,3% di tutti i nati vivi. In Italia l’incidenza è variabile tra lo 0,57% e l’1%”.
I giudici di primo e di secondo grado negarono il risarcimento richiesto per la nascita “indesiderata”.
Viene in questa sede alla ribalta il dettato dell’art. 6 della Legge n. 194 del 1978, che così recita:
L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Ebbene, i giudici di merito erano entrambi concordi nel fare riferimento all’onere, incombente sulla parte che lamenti il mancato esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza, di allegare e dimostrare l’esistenza delle condizioni legittimanti tale interruzione, ovvero il dover fornire prova sul grave pericolo in capo alla partoriente, oppure sul fatto che la conoscibilità dell’esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la salute fisica o psichica della donna.
Ciò premesso, i giudici di merito davano rilievo all’assenza di anomalie o malformazioni, seppur prevedibili con un certo grado di probabilità statistica, fino alla ventottesima settimana di gestazione, quando il neonato aveva già acquisito vita autonoma; conseguentemente, non essendoci certezza di un danno rilevante ed attuale per il feto, manifestatosi solo quando non era più possibile praticare l’aborto (perché il feto godeva già di vita), certo non si poteva imputare alle parti convenute la nascita “indesiderata”.
I coniugi rivendicanti il risarcimento, invece, anticipavano il tempo di praticabilità dell’aborto al momento dell’infezione del feto, che rende altamente probabile l’insorgere di anomalie o malformazioni, a prescindere dalla loro esistenza.
Questa lettura non corrispondeva, però, sempre secondi i giudici di merito, alla ratio sottesa alla norma, che tende a contemperare le esigenze di autodeterminazione della madre ed il diritto alla via del feto.
Pertanto, le sentenze di primo e di secondo grado concludevano rilevando che non sussistessero sin dall’origine i presupposti per ricorrere all’aborto: le anomalie si erano presentate solo alla ventottesima settimana, mentre prima il solo concetto di “rischio” di malformazioni dovuto alla mera esistenza del virus CMV, non legittimava l’invocazione di un pericolo per lo stato psicofisico di salute della donna.
Ricorrevano in Cassazione i due coniugi soccombenti nei gradi di merito, assumendo che, in presenza di un accertato processo patologico in atto, quale era l’infezione materna da CMV, il medico avrebbe dovuto rappresentare ai genitori, sin da subito, seppure in astratto e senza alcun riferimento al caso concreto, tutti i rischi teoricamente probabili (assai probabili) che l’infezione trasmettendosi al feto avrebbe determinato.
Ciò senza necessità di attendere il momento in cui, in concreto, si sarebbero manifestate le prime lesioni fetali.
Aggiungevano ancora i ricorrenti che si sarebbe dovuto ritenere il processo patologico, di cui alla Legge n. 194/1978, già in essere a seguito della insorta infezione da CMV e già accertato dal momento in cui era stata diagnosticata la malattia, prescindendo, quindi, dal momento in cui questa aveva manifestato le prime anomalie fetali.
Di conseguenza, si doveva ritenere che già al momento della prima visita eseguita sulla donna, costei, se correttamente informata, avrebbe potuto legittimamente interrompere la gravidanza in quanto in presenza di un grave pericolo per la sua salute psichica.
I Supremi Giudici danno seguito ad un’ampia esegesi del sopra rammentato articolo 6 della Legge 194.
Premesso che, tra i «processi patologici» che possono determinare il grave pericolo per la salute della donna, la norma considera anche «quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro», ci si deve interrogare sulla portata della previsione dell’art. 6 lettera B, dovendosi stabilire se, al fine di ritenere consentita l’interruzione della gravidanza, rilevino solo i processi patologici che risultino già esitati in accertate anomalie o malformazioni del feto oppure anche i processi patologici che possano determinare (con alta probabilità) tali anomalie o malformazioni, a prescindere dal fatto che le medesime siano state accertate, ove comunque emerga l’idoneità della stessa esistenza di un processo patologico potenzialmente nocivo per il nascituro a provocare un grave pregiudizio per la salute della donna (tale da legittimarne il ricorso all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno e fino a quando non sussista possibilità di vita autonoma del feto).
L’adesione all’una o all’altra delle due opzioni è tale da comportare esiti opposti.
Infatti, la prima conduce a ritenere che, pur in presenza di una patologia materna idonea a determinare, con rilevante grado di probabilità, gravi malformazioni del feto, la donna che abbia superato i novanta giorni di gestazione non possa effettuare la scelta abortiva, anche a fronte di un grave pericolo per la sua salute psichica (quale potrebbe conseguire alla consapevolezza di portare in grembo un feto molto probabilmente menomato).
La seconda consente – viceversa- di accertare, caso per caso, se la stessa esistenza di una patologia potenzialmente produttiva di malformazioni fetali sia tale da determinare il grave pericolo per la salute della donna, che giustifica il ricorso all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno (e fino al momento in cui il feto non abbia acquistato possibilità di vita autonoma).
Non hanno dubbi i Giudici di legittimità nell’aderire alla seconda opzione.
Ciò soprattutto sulla base della considerazione che, laddove si riferisce a processi patologici “relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto“, l’articolo 6 lettera B non richiede che l’anomalia o la menomazione si sia già concretizzata in modo da essere strumentalmente o clinicamente accertabile, ma dà rilievo alla circostanza che il processo patologico possa sviluppare una relazione causale con una menomazione fetale.
Lo stesso sintagma “processo patologico” individua una situazione biologica in divenire, che può assumere rilevanza per il solo fatto della sua esistenza e della sua attitudine a determinare ulteriori esiti patologici, a prescindere dal fatto che tale potenzialità si sia già concretamente tradotta in atto.
Cosicché deve ritenersi, in relazione al caso in esame, che anche la sola circostanza dell’esistenza di un’infezione materna da citomegalovirus possa rilevare al fine di apprezzare l’idoneità di tale processo patologico a determinare nella partoriente – compiutamente edotta dei possibili sviluppi – il pericolo di un grave pregiudizio psichico in considerazione dei potenziali esiti menomanti.
Nello stesso senso orienta la ratio della norma che, ponendo l’accento (come detto) sul processo patologico e sul grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, impone di riconoscere rilevanza alle situazioni in cui la patologia, ancorché non ancora esitata in menomazione fetale accertata, risulti comunque tale da poter determinare nella donna – che sia stata informata dei rischi per il feto – un grave pericolo per la sua salute psichica.
Da qui i seguenti principi di diritto enunciati dai Supremi Giudici:
“l’accertamento di processi patologici che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità, rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, consente il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza, ai sensi dell’art. 6, lett. b) della legge n. 194/78, laddove determini nella gestante – che sia stata compiutamente informata dei rischi – un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, da accertarsi in concreto e caso per caso, e ciò a prescindere dalla circostanza che l’anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata”;
“il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate a una patologia dalla medesima contratta può essere chiamato a risarcire i danni conseguiti alla mancata interruzione della gravidanza alla quale la donna dimostri che sarebbe ricorsa a fronte di un grave pregiudizio per la sua salute fisica o psichica”.
La Cassazione rinviava dunque la causa alla Corte d’Appello, dettando le seguenti tappe procedurali:
a) la Corte di rinvio dovrà verificare se sia effettivamente mancata, da parte del ginecologo, una corretta e completa informazione sui rischi correlati all’infezione da citomegalovirus contratta dalla gestante (accertamento che non è stato compiuto perché la Corte territoriale ha ritenuto che l’aborto non sarebbe stato comunque praticabile);
b) nel caso in cui detta informazione risulti mancata o carente, la Corte dovrà accertare in concreto, con giudizio controfattuale e anche mediante ricorso a presunzioni, se la conoscenza della probabilità che l’infezione da citomegalovirus provocasse danni fetali avrebbe determinato nella donna un grave pericolo per la salute fisica o psichica;
c) nel caso in cui risultino integrate tutte le condizioni per praticare l’interruzione della gravidanza, accertare se la partoriente ne avrebbe fatto ricorso, valutando in astratto l’intenzionalità o meno di abortire in capo alla donna (ossia una volontà abortiva specifica, da provare anche in base a presunzioni, come già evidenziato dalle Sezioni Unite con Sentenza n. 25767 del 2015 – se ne è già parlato qui).