Il danno da nascita indesiderata

La Legge 194 del 1978 ha depenalizzato e regolamentato le modalità per l’interruzione volontaria della gravidanza ammesse dall’ordinamento.

Nei primi novanta giorni dal concepimento, è possibile procedere all’aborto volontario qualora sussistano per la donna circostanze in ragione delle quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica della gestante (in relazione al suo stato di salute, alle sue condizioni economiche, sociali, familiari, alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, oppure a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito).

Nell’ipotesi in cui si superi il novantesimo giorno dal concepimento, la Legge ammette solo due casi in ragione dei quali c’è la possibilità di abortire: quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, oppure quando siano accertati, da parte di un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell’ente ospedaliero in cui deve praticarsi l’intervento, processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della stessa.

Ebbene, la sussistenza di patologie riconducibili ad anomalie di rilievo, oppure di malformazioni già riscontrabili sul feto, se da un lato sono giustificazione per poter richiedere l’aborto anche dopo i novanta giorni dal concepimento, dall’altro lato impongono, in capo ai professionisti ed alla struttura sanitaria che seguono la partoriente, obblighi di verifica dello stato di salute del nascituro, segnalando alla futura mamma le eventuali malformazioni e le criticità eventualmente presenti.

Qualora questa attività del personale medico venga meno e sopravvenga una nascita “indesiderata”, la partoriente ha diritto al risarcimento dei danni subiti.

La Sezione Terza Civile della Suprema Corte, con Sentenza n. 2354 del 2010, ha evidenziato, in una vicenda giudiziaria nella quale la madre richiedeva il ristoro economico del danno da “nascita indesiderata”, alcuni capisaldi d’azione: anzitutto, il giudice di merito deve accertare, ex ante, se la conoscibilità delle rilevanti anomalie e malformazioni del feto – secondo la diagnostica e la tecnica a disposizione in base alle conoscenze medico-scientifiche del momento attuale – avrebbe determinato (con un giudizio di prognosi postuma) un grave pericolo della lesione del diritto alla salute della madre, avuto riguardo alle condizioni concrete psicofisiche patologiche della stessa, così da determinare i presupposti per attuare la tutela dell’interesse della donna.

In tale contesto, il diritto della partoriente è ritenuto prevalente dalla Cassazione, rispetto al diritto alla nascita del concepito gravemente malformato, purché non giunto ad uno stadio di formazione e maturità che ne rende possibile la sua vita autonoma – consentendo alla madre di interrompere la gravidanza.

Su tali basi, non può essere accantonato l’obbligo, da parte del medico, di fornire al paziente informazioni sempre valide e corrette circa lo stato di salute e sugli eventuali rischi cui si potrebbe andare incontro, e tale obbligo sussiste, una volta di più, in caso di gravidanza, momento particolarmente delicato per la donna, che richiede un presidio sanitario e accertamenti medici di particolare approfondimento.

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Va segnalata, peraltro, ulteriore giurisprudenza della Cassazione, in ragione della quale si riconosceva meritevole di tutela anche il diritto del neonato nato malformato, il quale ben può dar seguito ad un’azione di responsabilità in proprio (ovviamente per il tramite dalle persone dei genitori, nell’interesse del neonato); soggetti passivi dell’azione saranno sempre il medico colpevole di aver omesso di fornire le dovute informazioni ai genitori nel corso della gravidanza, come pure la struttura sanitaria ove la gestante era ospitata (Cassazione Civile Sezione Terza, Sentenza n. 16754/2012). In tale contesto, il diritto tutelato dall’ordinamento è quello derivante da una omissione colpevole del professionista medico, dalla quale deriva il danno del partorito a soggiacere ad un’esistenza diversamente abile, che discende, a sua volta, dalla possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre.

Di fatto, la Sezione Terza della Suprema Corte riconosceva il diritto della persona appena nata, ad avere un’esistenza libera, sana e dignitosa, sulla base del disposto degli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione.

Si faccia però attenzione: letto da un’altra prospettiva, questo diritto della persona appena nata si traduce, di fatto, in un diritto… a non nascere!

Sia doveroso evidenziare che i dettami di questo orientamento della Suprema Corte rischiavano di concedere un “eccesso” di tutela del soggetto malformato. Stando alla ricostruzione giurisprudenziale del 2012, addirittura si potrebbe prospettare un diritto di una persona in vita a … non essere in vita (!); inoltre si potrebbe persino immaginare la possibilità, da parte del nato malformato, di agire nei confronti della madre ogni volta in cui ella, pur consapevole dell’esistenza di handicap, abbia scelto in propria scienza e coscienza di proseguire egualmente con la gravidanza.

Con una pronuncia più “moderata” le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno osservato, in subiecta materia, quanto appresso (cfr. Sentenza n. 25767/2015): è necessario verificare con oggettività il contenuto del diritto del soggetto nato malformato ed il rapporto di causalità tra condotta del medico ed evento di danno.

Sotto il primo profilo, sì deve partire dal concetto di danno-conseguenza, consacrato all’art. 1223 del codice civile (ristoro della perdita più il mancato guadagno); in tale ricostruzione dogmatica, il danno riuscirebbe legato alla stessa vita del bambino; e l’assenza di danno …. alla sua morte (sic!). In tale contesto, rilevano i Supremi Giudici, la tesi ammissiva incorre in una contraddizione insuperabile: dal momento che il secondo termine di paragone, nella comparazione tra le due situazioni alternative, prima e dopo l’illecito, è la “non vita”, da interruzione della gravidanza. E la “non vita” non può mai essere … un bene della vita, come logica vuole. Nè il soggetto neonato può aver diritto alla distruzione della propria vita, altrimenti si giungerebbe a legittimare un diritto… al suicidio o alla morte di se stessi!

Nessuna vita è indegna di essere vissuta: l’ordinamento non può giungere sino ad ammettere un diritto… a non nascere in favore della persona nata!

Concludendo, non si può dire che sia oggi negato il diritto del neonato a vedersi risarcire un danno proprio provocatogli durante la gestazione.

Tuttavia, non esiste tutela del neonato che rivendichi “sic et simpliciter” un diritto a… non essere venuto in vita; e ciò proprio perché contraddittorio ed inammissibile logicamente, eticamente e giuridicamente.

Dunque, non c’è legittimazione attiva del neonato nei confronti del medico per omessa informativa alla madre partoriente della situazione di handicap nel feto.

Un secondo solo ….…     

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Un commento

  1. […] c) nel caso in cui risultino integrate tutte le condizioni per praticare l’interruzione della gravidanza, accertare se la partoriente ne avrebbe fatto ricorso, valutando in astratto l’intenzionalità o meno di abortire in capo alla donna (ossia una volontà abortiva specifica, da provare anche in base a presunzioni, come già evidenziato dalle Sezioni Unite con Sentenza n. 25767 del 2015 – se ne è già parlato qui). […]

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