La parola di provenienza anglosassone “clickbait” è oramai un termine comune a tutti, che rivela, purtroppo, un fenomeno che vivono tutti gli internauti, nel corso di quasi tutte le loro “navigazioni” telematiche sulla rete.
Avviene con cadenze molto frequenti che, al momento di aprire una pagina internet, per lo più legata al mondo dell’informazione o ai social network, compaiano “nuvole”, colonnine laterali o didascalie, con le quali si chiede all’utente del web di “cliccare”, al fine di aprire una nuova pagina; i contenuti di questa didascalia sono presentati in modo accattivante, con titoli sensazionalistici, legati a tematiche di massimo interesse per la gran parte dell’utenza (gossip, cronaca nera, comicità, sesso, e così via).
In verità, questa pagina null’altro è che un’attraente “esca” digitale, ossia un contenuto internet a scopi prettamente pubblicitari, utile solo per generare rendite online al detentore della pagina medesima.
Il titolo accattivante per lo più è una “bufala” mediatica, distorsiva degli effettivi accadimenti di cronaca, o comunque una notizia in gran parte irreale, o, peggio, ingannevole, atta a far leva sulle sensazioni immediate del lettore e, quindi, sull’aspetto emozionale della coscienza e sulle tempistiche “immediate” dei click che si concedono online.
Il vero obiettivo del “clickbait” è quello di attirare il maggior numero possibile di navigatori online, al fine di sollecitare la condivisione della pagina da sponsorizzare all’interno dei più noti social network di uso quotidiano (Facebook, Twitter, Instagram, Google Plus e così via). In tal modo, la pagina da pubblicizzare, grazie alle condivisioni a loro volta elargite dal pubblico degli internauti, acquisisce notevole rilievo e raggiunge la finalità di marketing prefissata all’origine.
Il fenomeno del “clickbait” si sviluppa anche sui siti di condivisione di riproduzioni video, come Youtube o Dailymotion, attraverso la creazione fittizia, quale anteprima del filmato integrale, di un fotogramma contenente immagini che nulla hanno a che fare con l’effettivo contenuto del video medesimo; e ciò, ancora una volta, per finalità di pura sponsorizzazione ed (auspicata) proliferazione dei “clicks”.
Questo fenomeno, se a prima vista può apparire soltanto fastidioso e fonte di lungaggini e seccanti aperture di inutili pagine sul browser internet, a ben vedere nasconde dietro di sè una fonte di guadagno di origine quanto meno dubbia, se non ai limiti del lecito.
Se è vero che l’art. 640 del codice penale inquadra all’interno del reato di truffa chiunque, attraverso artifici o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è altrettanto vero che il “clickbait” potrebbe essere presto ricondotto, all’interno di pronunce giudiziali, all’interno di questa fattispecie criminosa.
Inoltre, la proliferazione di “fake news” può generare reati quali diffamazioni a mezzo internet, procurati allarmi, istigazioni alla violenza.
Va infine evidenziato che l’art. 656 del codice penale prevede e sanziona come reato la pubblicazione o la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico.