Il danno da autolesioni provocatesi dal paziente. La responsabilità dell’ospedale

Nel 1888 Vincent Van Gogh si amputò una parte dell’orecchio sinistro, probabilmente in seguito all’allontanamento dell’amico Gauguin, o forse perché il geniale artista non era d’accordo con il matrimonio annunciatogli dal fratello Theo, col quale era molto legato e che era anche gran finanziatore delle attività pittoriche del Maestro olandese.

autoritratto

Nell’Autoritratto con cappello di pelliccia, l’orecchio bendato e tabacco da pipa Van Gogh raffigura se stesso dopo la traumatica amputazione. In uno sfondo in cui trionfa il rosso, che fa da contraltare all’acceso verde del vestito, emerge la figura malinconica e folle del geniale pittore, con tutte le proprie difficoltà esistenziali.

Purtroppo il disagio psichico che deriva da uno stato di depressione o da una patologia può generare eventi traumatici, anche all’interno delle strutture ospedaliere.

Il caso definito dai Supremi Giudici lo scorso 8 luglio 2020 tratta proprio di autolesioni che inferse su se stesso un paziente già affetto da patologia psicofisica (la schizofrenia paranoide), e che lo condussero al decesso.

I parenti della vittima, fermi i danni “iure hereditatis” da morte del soggetto leso, agivano davanti alla Cassazione per rivendicare anche i danni “iure proprio”, cioè quelli da perdita del rapporto parentale, in ragione del decesso, per evento suicidario, del loro parente.

La Sezione Terza Civile, cui veniva demandata la decisione, definì il caso con Sentenza n. 14258 del 2020.

Veniva anzitutto evidenziato che nessun dubbio poteva sollevarsi sulla responsabilità per omessa vigilanza di una struttura sanitaria nei confronti di persona ospite di un reparto psichiatrico non interdetta nè sottoposta ad intervento sanitario obbligatorio.

In più di una occasione i giudici di Piazza Cavour hanno ricondotto il rapporto nell’ambito contrattuale, ed in particolare di quel contratto atipico di assistenza sanitaria che si sostanzia di una serie complessa di prestazioni che la struttura eroga in favore del paziente, sia di natura medica che ‘lato sensu‘ di ospitalità alberghiera, obbligazioni tutte destinate a personalizzarsi in relazione alla patologia del soggetto.

Si è affermato – con riferimento a danni patiti da malato psichiatrico a causa di comportamenti autolesionistici – che qualsiasi struttura sanitaria, nel momento stesso in cui accetta il ricovero d’un paziente, stipula un contratto dal quale discendono naturalmente, ai sensi dell’art. 1374 del codice civile due obblighi: il primo è quello di apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione; il secondo è quello di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale della cura.

Su tali basi, dunque, una volta ricondotta la salvaguardia dell’incolumità del paziente psichiatrico tra quegli obblighi di protezione destinati ad integrare il contenuto del contratto ex art. 1375 del codice civile, si è affermato come, ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, il paziente debba abitualmente provare solo l’avvenuto inserimento nella struttura e che il danno si sia verificato durante il tempo in cui egli si trovi inserito nella struttura (sottoposto alle cure o alla vigilanza del personale della struttura), mentre spetta alla controparte dimostrare di avere adempiuto la propria prestazione con la diligenza idonea ad impedire il fatto.

Ricorrendo in casi siffatti una ipotesi di “culpa in vigilando”, come del resto in qualsiasi ipotesi di colpa omissiva consistita nel non avere impedito un evento che si era obbligati ad impedire, l’avverarsi stesso dell’evento costituisce prova dell’esistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva ed il danno, potendo la struttura sanitaria esonerarsi da responsabilità dimostrando di avere tenuto una condotta diligente, consistita in una adeguata sorveglianza del degente (per fare degli esempi, inserzione di protezioni nella stanza adibita a degenza, installazione di telecamere, presidi infermieristici ed ausiliari d’immediato intervento, sistemi di allarme adeguati al contesto, e così via).

Nondimeno, se – ed in tali termini – deve ritenersi che una struttura ospedaliera risponda, contrattualmente, dei danni dei quali chieda il ristoro lo stesso paziente (che lamenti la mancata adeguata vigilanza sulla sua persona, ed in particolare l’omesso impedimento di atti autolesivi), non altrettanto può dirsi in ordine, invece, in relazione all’iniziativa risarcitoria assunta dai suoi stretti congiunti, per far valere, nelle stesse ipotesi, il danno da menomazione del rapporto parentale, o da perdita dello stesso, particolarmente nel caso in cui l’iniziativa autolesionistica del malato, soprattutto quello psichiatrico, si risolva in un atto suicidario portato a compimento.

Con riferimento ad una fattispecie di responsabilità medica relativa ad un evento mortale, si era precisato che il diritto che i congiunti vantano, autonomamente – sebbene in via riflessa – ad essere risarciti dalla struttura, dei danni da loro direttamente subiti in relazione al decesso del paziente, si colloca nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e pertanto è soggetto al termine di prescrizione quinquennale previsto per tale ipotesi di responsabilità dall’art. 2947 del codice civile (così la Sentenza n. 5590 del 20 marzo 2015, sempre della Terza Sezione Civile).

D’altra parte, i ricorrenti non potevano invocare alcuna responsabilità contrattuale, nè, tanto meno, potevano invocare la figura dei cosiddetti “terzi protetti dal contratto”.

Si è sottolineato che il tratto distintivo della responsabilità contrattuale risiede nella premessa della relazionalità, da cui la responsabilità conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio, sicché il danno derivante dall’inadempimento dell’obbligazione non richiede la qualifica dell’ingiustizia, che si rinviene nella responsabilità extracontrattuale, perché la rilevanza dell’interesse leso dall’inadempimento non è affidata alla natura di interesse meritevole di tutela alla stregua dell’ordinamento giuridico, come avviene per il danno ingiusto di cui all’art. 2043 del codice civile, bensì alla corrispondenza dell’interesse alla prestazione dedotta in obbligazione (ai sensi dell’articolo 1174 del codice civile), essendo, dunque, la fonte contrattuale dell’obbligazione che conferisce rilevanza giuridica all’interesse regolato (così Cassazione Civile Sezione Terza, Sentenza 11 novembre 2019, n. 28991).

In forza, dunque, della ‘relazionalità’ della responsabilità contrattuale (un precipitato, a ben vedere, dell’art. 1372 comma 1 del codice civile), è proprio la natura dell’interesse che segna, per cosi dire, il ‘limen‘ entro cui risulta possibile integrare – anche in chiave di efficacia protettiva verso terzi, ex art. 1375 cod. civ. – il contenuto del contratto, consentendo, così, pure a soggetti che non rivestono la qualità di parte negoziale di agire a norma dell’art. 1218 del codice civile, per “responsabilità del debitore” che non esegue esattamente la prestazione dovuta.

Perché sia possibile postulare l’efficacia protettiva verso terzi, occorre che l’interesse di cui essi siano portatori risulti anch’esso strettamente connesso a quello regolato già sul piano della programmazione negoziale

E’ per questa ragione, allora, che nell’ambito delle prestazioni mediche la figura del contratto con efficacia protettiva verso terzi trova il suo luogo di emersione – come si diceva – con riferimento alle relazioni contrattuali intercorse tra la puerpera e la struttura sanitaria (e/o il professionista) che ne segua la gestazione e/o il parto.

Invero, già da tempo la Cassazione ha affermato che col ricovero della gestante l’ente ospedaliero si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle il parto, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligenza e prudenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto (ed al neonato), sì da garantirne la nascita, evitandogli – nei limiti consentiti dalla scienza (da valutarsi sotto il profilo della perizia) – qualsiasi possibile danno, dei quali, altrimenti, risponderà, una volta che il nascituro venga ad esistenza, sul piano contrattuale, sebbene il medesimo sia rimasto estraneo al contratto.

Analogamente, si è ritenuto che il neonato malformato o meglio, per costui, i suoi rappresentati legali – possa agire, sempre contrattualmente, in relazione ai danni che gli siano derivati, per violazione dell’obbligo di informazione, nel caso in cui alla genitrice, durante la gestazione, siano stati somministrati senza adeguata informazione farmaci che abbiano provocato malformazioni al concepito.

Il presupposto comune a tali pronunce è la constatazione che il contratto intercorso tra la gestante ed il sanitario (o la struttura), si atteggia come contratto con effetti protettivi a favore di terzo (figura individuata dalla dottrina tedesca, Vertrage mit Schutzwirkung fur Dritte) nei confronti del neonato, quantunque le prestazioni nei suoi confronti debbano essere assolte in tutto o in parte, anteriormente alla nascita

E’ pertanto, tale coesistenza di interessi – rispetto ai quali, quello all’esecuzione della prestazione sanitaria secondo le ‘leges artis’ presenta carattere strumentale – che giustifica la tutela del concepito secondo lo schema del terzo protetto dal contratto.

Nondimeno, al di fuori di questo ambito, peculiare, la figura del contratto con efficacia protettiva verso il terzo, nel campo della “responsabilità da malpractice sanitaria“, non ha ragion d’essere, dovendo, dunque, le pretese risarcitorie azionate ‘iure proprio’ dai congiunti del paziente, unica parte della relazione contrattuale, essere fatte valere ai sensi dell’art. 2043 del codice civile.

Non avendo i ricorrenti agito per rivendicare la responsabilità aquiliana, ma solo come asseriti terzi protetti dal contratto” ed essendo spirati i termini per agire (per intervenuta prescrizione), la loro domanda veniva recisamente rigettata.

Un secondo solo ….…     

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