Nell’antica Repubblica romana uno dei contratti più frequenti tra uomini d’affari era quello relativo agli schiavi.
Gli schiavi erano venduti nelle botteghe, sui mercati o nel Foro, vigilati da magistrati, a tutela dei rilevanti profitti statali.
Di solito venivano offerti nelle grandi fiere su un palco girevole, con al collo un cartello che indicava la famiglia d’origine, il luogo, la nascita, le migliori doti, gli eventuali difetti.
Gli schiavi non avevano diritti, ma solo responsabilità penali.
Non potevano possedere beni materiali in proprietà. Se avevano moglie e figli, il loro dominus poteva venderli senza chiedere autorizzazioni.
Gli schiavi, di regola, non potevano contrarre matrimonio né essere difesi dalla legge o ascoltati in tribunale.
Le decine di migliaia di prigionieri di guerra che l’esercito romano faceva durante le campagne espansionistiche dello Stato, accrebbero in modo esponenziale il numero degli schiavi.
Si ritiene che nel corso del primo secolo avanti Cristo, nel pieno fiorire della Repubblica romana, vi fossero quasi due milioni di schiavi.
Oltre ai prigionieri di guerra, venivano ritenuti schiavi anche i disertori dell’esercito e le persone libere che non tenevano fede ai loro debiti (questi ultimi diventavano schiavi del loro creditore).
Un episodio di estrema crudeltà da parte di un padrone nei confronti di uno schiavo, viene narrato dal filosofo Seneca nella sua opera De Ira (cfr. III, 40, 2-3):
“Mentre il divino Augusto cenava in casa di Vedio Pollione, uno dei servi di quello ruppe un calice di cristallo. Vedio comandò che fosse afferrato e che morisse secondo un uso non comune: comandò che fosse gettato in pasto alle murene, che Vedio allevava grosse nel suo acquario. […] Il servo sfuggì dalle mani e si rifugiò ai piedi di Cesare, cui niente altro chiese, se non di morire in modo diverso, di non diventare un’esca. Colpito dalla stranezza della crudeltà, Cesare ordinò che quello fosse lasciato andare, e che tutti gli oggetti di cristallo fossero rotti davanti a lui e ne fosse riempito l’acquario”.
Le cose non andavano bene neppure in epoca imperiale.
Sotto Nerone, è purtroppo famosa la tragica fine della schiava Epicari, accusata di essere a conoscenza di una congiura ai danni dell’imperatore; così racconta lo storico Tacito negli Annales (Liber XV, 51):
“E nel frattempo Nerone, quando si ricordò che Epicari veniva tenuta in prigione per l’accusa di Valerio Proculo e pensò che il corpo di una donna non sapesse sopportare bene il dolore, ordinò di torturarla. Ma nè le percosse, nè i ferri roventi, nè l’ira dei torturatori, che si incrudelivano ancor di più, per non essere disprezzati da una donna, riuscirono a convincerla a smettere di negare le accuse che le venivano rivolte. così il primo giorno di interrogatorio passò senza risultati. Il giorno dopo, mentre veniva portata su una portantina- infatti non era in grado di reggersi in piedi, con gli arti spezzati – alle solite torture, mise il collo dentro il cerchio della fascia che si era levata dal petto, dopo averlo stretto come un laccio alla spalliera della sedia e, sforzandosi col peso del corpo con quel poco di vita che le rimaneva, morì…”.
La legge romana prevedeva la possibilità di ridare la libertà ad un proprio schiavo, tramite l’istituto della “manumissione”.
Lo schiavo liberato si chiamava libertus e prendeva il prenome e nome del padrone, che gli concedeva la sua protezione e diveniva il suo patronus.
Le modalità per liberare uno schiavo erano le seguenti:
– per vendictam: il padrone conduceva lo schiavo davanti al pretore, lo percuoteva e gli dava uno schiaffo;
– per censum: il padrone autorizzava lo schiavo a farsi iscrivere dal censore nel novero dei cittadini romani;
– per testamentum: il padrone nel suo testamento dava esplicitamente la libertà allo schiavo.