Storia dei referendum costituzionali

La nostra Costituzione, entrata in vigore il Primo Gennaio 1948, regala all’ordinamento giuridico italiano un catalogo di diritti fondamentali tra i più completi e significativi del mondo occidentale, promuovendo il pieno sviluppo della persona umana, sia come singolo, sia all’interno delle formazioni sociali.

L’art. 138 della Costituzione statuisce che è possibile richiedere referendum costituzionale dopo la seconda votazione, da parte delle due camere, teso a confermare l’approvazione di una legge di revisione costituzionale, o una legge costituzionale.

Le camere in seconda convocazione devono raggiungere il 50% più uno dei propri componenti favorevoli (ossia la maggioranza assoluta); se invece raggiungono la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti, non sarà possibile chiedere la consultazione popolare.

Dunque il ricorso alla volontà popolare viene demandato non nel momento “costitutivo” della formazione della legge, bensì come una eventualità della fase integrativa dell’efficacia della legge stessa.

L’iter parlamentare sarà sempre indispensabile e, nei casi in cui si raggiungano i due terzi dei componenti favorevoli, sarà anzi sufficiente alla completa efficacia dell’iter costituzionale.

La fase delegata all’elettorato è invece soltanto eventuale, peraltro dietro richiesta di referendum da parte di uno dei soggetti legittimati: un quinto dei membri di un ramo del parlamento, cinquecentomila elettori, oppure cinque consigli regionali – e comunque con istanza da formalizzare entro tre mesi dalla pubblicazione della legge di modifica costituzionale o legge costituzionale.

Se il referendum si rende necessario e viene indetto, non sarà necessario raggiungere il 50% più uno degli aventi diritto al voto, come invece avviene per l’istituto del referendum abrogativo di una legge ordinaria.

Nella storia della Repubblica italiana si sono susseguiti soltanto quattro referendum:

I) Referendum del 7 ottobre 2001

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(foto ripresa da quotidiano.net)

SI 64,21%   NO 35,80%

Questo referendum che richiamava correnti politiche vicine al concetto di “federalismo” o comunque legate ad un maggiore coinvolgimento dei poteri decentrati sul territorio regionale e comunale, traeva origine da disegno di legge proposto dal Presidente del Consiglio D’Alema e dal Ministro per le Riforme istituzionali Amato (raggruppamento politico de L’Ulivo). Politicamente, non era affatto nascosto l’intento di avvicinarsi, seppur in modo lieve, alle idee politiche del partito della Lega Nord.

La conferma popolare consentì di approvare riforme volte a ridefinire le materie da dividere tra legislazione esclusiva e legislazione concorrente tra Stato e Regioni; veniva dunque riconosciuta alle Regioni “la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.

Con il nuovo testo dell’articolo 117 della Costituzione venivano infatti elencate le materie competenza statale “politica estera, difesa e forze armate, moneta e tutela del risparmio e mercati finanziari, tutela della concorrenza, perequazione delle risorse finanziarie, giurisdizione, referendum statali, ordine pubblico, sicurezza federale”; invece, per le restanti la competenza viene affidata alle Regioni.

In particolare, alle Regioni venivano riconosciuti maggiori poteri in tema di istruzione, ambiente e giudici di pace. Per le materie di loro competenza le Regioni, inoltre, dovranno obbligatoriamente essere coinvolte nella stesura di leggi comunitarie.

Veniva altresì abolito il Commissario del Governo, veniva abolito il controllo preventivo, da parte dell’esecutivo centrale, sulle leggi regionali, residuando solo il controllo successivo di legittimità con possibilità di adire la Corte Costituzionale; veniva abolito anche il controllo regionale (effettuato dal Coreco) sugli atti di Province e Comuni.

Entrava inoltre nel testo della Costituzione la promozione della “parità d’accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.

II) Referendum del 25 e 26 Giugno 2006

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(immagine tratta da welfarenetwork.it)

SI 38,71%   NO 61,29%

La riforma costituzionale non ebbe la conferma popolare.

Lo schieramento di Centrodestra propose un’ulteriore fase di decentramento del potere politico, tramite quella che veniva chiamata “devolution”, termine anglosassone che intendeva indicare l’assegnazione, all’esclusiva competenza delle Regioni, dell’organizzazione scolastica, della sanità, della polizia regionale e locale.

Veniva altresì proposta l’introduzione di un “premierato” sul modello presidenziale o semi-presidenziale, con un presidente del Consiglio scelto direttamente dall’elettorato con la scheda elettorale, insediato subito dopo il voto, senza bisogno di chiedere la fiducia alla Camera e con una nomina diretta da parte del Presidente della Repubblica, senza alcuna facoltà di scelta come invece vuole l’art. 92 della Costituzione.

La riforma avrebbe attribuito al “premier” il potere di sciogliere le due camere e la sfiducia del Primo Ministro avrebbe comportato quasi in ogni caso a nuove elezioni.

Venivano altresì proposte la riduzione del numero dei parlamentari e la fine del bicameralismo perfetto: la Camera dei deputati, unica chiamata a dare la fiducia al Governo, avrebbe deciso su bilancio, energia, trattati internazionali, opere pubbliche; il Senato della Repubblica, invece, avrebbe legiferato sulle materie di competenza concorrente con le Regioni.

III) Referendum del 4 dicembre 2016

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(immagine tratta da quotidiano.net; è un onore per me qui ricordare l’insigne giurista Stefano Rodotà, noto per illuminanti approfondimenti in tema di privacy, accesso ad internet, tutela dei diritti ed al tempo oppositore della riforma costituzionale)

SI 40,88%   NO 59,12%

Il voto referendario ancora una volta oppose un diniego alla proposta di modifica costituzionale.

La riforma “Renzi-Boschi”, promossa con enfasi dalla maggioranza di Governo del tempo, intendeva istituire una forma di “bicameralismo differenziato”, secondo il quale i senatori avrebbero discusso e votato, insieme ai deputati, solamente le leggi concernenti i rapporti tra Stato, Unione Europea e territorio, oltre che su leggi costituzionali, revisioni della Costituzione, leggi sui referendum popolari, leggi elettorali, leggi sull’amministrazione pubblica, sugli organi di governo e sulle funzioni di Comuni e Città Metropolitane.

In relazione alle altre leggi ordinarie, il Senato avrebbe potuto chiedere alla Camera la revisione entro 10 giorni dalla loro presentazione, su richiesta di un terzo dei componenti. La Camera, a sua volta, avrebbe potuto decidere di non accogliere le modifiche proposte e andare alla votazione finale senza ascoltare il Senato (ma per le modifiche chieste dai senatori su leggi di bilancio o leggi riguardanti competenze che vengono assegnate esclusivamente alle Regioni, le stesse potevano essere ignorate dalla Camera solo se viene superata nella votazione la maggioranza assoluta).

Veniva proposto anche un iter legislativo più agile (per evitare le “navette” tra una camera e l’altra) e veniva anche chiesto un ridimensionamento delle autonomie regionali, in controtendenza rispetto alle idee di federalismo del recente passato; veniva anche proposta l’abolizione del Cnel.

IV) Referendum del 29 marzo 2020

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(immagine tratta da Gioianet)

Il prossimo 29 marzo 2020 l’elettorato sarà chiamato per la quarta volta nella storia della Repubblica italiana, a pronunciarsi su una modifica della Costituzione richiesta dal Parlamento.

Si richiedono modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione.

Più in particolare, si chiede che il numero dei deputati da 630 venga ridotto a 400, che il numero dei senatori da 315 venga ridotto a 200, che i senatori a vita non possano eccedere il numero complessivo di cinque unità.

Parlo della storia dei referendum costituzionali sul mio canale youtube, raggiungibile a questo link:

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