Molestie sessuali sul luogo di lavoro. Va risarcito anche il danno morale, in modo circostanziato

“Nome di donna” è un film del 2018 di Marco Tullio Giordana, interpretato dall’ottima Cristina Capotondi, nel quale viene evidenziata la problematica delle violenze sessuali, che purtroppo molte lavoratrici subiscono nei contesti lavorativi.

La protagonista, cameriera, viene suo malgrado catapultata all’interno di una clinica per anziani facoltosi dove è vittima di molestie ad opera del direttore; circostanza forse ancor più traumatica, si monta dietro i fatti un incredibile “muro di gomma” costellato da silenzi ed omertà, protratto lungo il tempo dai dirigenti della struttura e dalle stesse colleghe di lavoro, anche loro vittime degli abusi, ma disposte ad accettare la situazione pur di lavorare.

nome di donna

(un fotogramma del film, tratto da “videaspa”)

Analizzando le risultanze di un’indagine condotta tra il 2013 ed il 2016, l’ISTAT ha rilevato che sono un milione 404 mila le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro.

Rappresentano l’8,9% per cento delle lavoratrici attuali o passate, incluse le donne in cerca di occupazione (il sondaggio è consultabile a questo link).

Esiste giurisprudenza plurima della Suprema Corte in materia di molestie sessuali poste in essere sul luogo di lavoro, nei confronti della persona di una lavoratrice o di un  lavoratore.

In questi casi, precisano i giudici di legittimità, il datore di lavoro deve rispondere in termini civilistici, per i danni cagionati dalla condotta penalmente illecita del dipendente.

L’art. 2087 del codice civile statuisce che l’imprenditore sia tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

Quest’obbligo di protezione implica che il datore di lavoro, il quale sia venuto a conoscenza di condotte integranti molestie sessuali ai danni di una propria lavoratrice per mano di un dipendente della propria impresa, detenga su di sé un obbligo attivo d’intervento, al fine di predisporre tutte le misure organizzative a presidio del personale, oltre alle doverose misure di carattere disciplinare nei riguardi dell’autore del crimine (sospensione cautelare dal servizio, licenziamento per giusta causa) .

In questa fattispecie viene in soccorso anche il disposto dell’art. 2049 del codice civile, che vuole che i padroni e i committenti siano responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.

La portata della norma consente di allargare la responsabilità datoriale in tutte le ipotesi in cui il fatto illecito si sia verificato nel contesto lavorativo.

In quest’ottica, il datore di lavoro non risponderà del fatto del proprio dipendente esclusivamente nell’ipotesi in cui il quest’ultimo abbia agito con dolo ed al di fuori del cosiddetto “rapporto di occasionalità necessaria” rispetto alle mansioni lavorative, cioè quando la violenza sessuale si sia consumata all’interno del luogo di lavoro in via del tutto accidentale e casuale.

Si tratta, di fatto, di un caso di responsabilità oggettiva, legato al concetto di rischio d’impresa, in ragione del quale la parte datoriale, nel momento in cui organizza i mezzi per l’esercizio dell’attività lavorativa, deve prevedere tutte le misure volte a garantire, in ogni caso, la sicurezza del prestatore di lavoro.

Pertanto, laddove si verifichi una violazione del bene sicurezza, il datore di lavoro dovrà rispondere sempre e comunque del danno subito dal dipendente, con l’unica esimente costituita dall’ipotesi residuale che la condotta lesiva verificatasi sul luogo di lavoro  assuma contorni di mera “accidentalità” e “casualità”, ovvero risulti l’esito di un’azione estemporanea e personale del tutto incoerente rispetto alle mansioni demandate dall’impresa al dipendente colpevole.

Sia ulteriormente evidenziato che l’art. 26 comma II del Decreto Legislativo 198/2006 considera “discriminazioni di genere” anche le molestie sessuali, cioè quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.

In tale contesto si innesta una recentissima pronuncia resa dalla Sezione Lavoro della Suprema Corte, in data 18 febbraio 2020, rubricata al numero 4099.

I giudici di legittimità sono intervenuti in riforma di un Sentenza della Corte di Appello di Genova, che già aveva innalzato il quantum risarcitorio in favore di una lavoratrice, purtroppo vittima di una violenza sessuale.

In considerazione della gravità del pregiudizio fisico e psichico riportati in conseguenza delle molestie sessuali poste in essere nei suoi riguardi da due superiori gerarchici, seguite a breve distanza di tempo dallo stupro perpetrato nei confronti della donna da parte di uno dei due, il Collegio di appello aveva ritenuto equo aumentare del 50% l’importo riconosciuto a titolo di danno non patrimoniale.

Ricorreva in Cassazione la vittima del turpe reato, lamentando come il danno alla vita di relazione non fosse stato ricompreso nelle poste risarcitorie.

Ella evidenziava, in particolare, che il consulente tecnico d’ufficio aveva riconosciuto esiti di carattere permanente, rappresentati dal disturbo post traumatico da stress con stato depressivo, quantificati in misura pari al 15%, specificando, altresì, che i postumi in questione “incidono negativamente in misura equivalente al biologico” sulla vita di relazione della ricorrente.

Evidenziava ancora la difesa della donna che il perito d’ufficio aveva specificato la presenza di due distinte voci risarcitorie:

a) la prima, rappresentata dal danno biologico, pari al 15% dell’invalidità permanente (secondo le tabelle del risarcimento del danno);

b) la seconda, rappresentata dal danno non patrimoniale alla vita di relazione, riconosciuto in egual misura rispetto al danno biologico e, pertanto, pari anch’esso al 15%.

I Supremi Giudici, intervenendo ancora una volta in materia di risarcimento del danno morale in generale, hanno evidenziato come compito del giudicante sia quello di valutare congiuntamente il danno non patrimoniale subito dal soggetto leso, distinguendo tuttavia i differenti beni della vita meritevoli di ristoro.

La Suprema Corte precisava dunque che andavano considerati tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (il cosiddetto “danno morale” propriamente definito, da identificarsi con il dolore, come in ipotesi della vergogna, della disistima di sé, della paura, ovvero della disperazione) quanto quello dinamico-relazionale (atto ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

Nella valutazione del danno in parola il giudice avrebbe dovuto valutare a fini risarcitori – così continuano i giudici di legittimità – tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale, che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso, quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita, che si muovono nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”.

Conseguentemente, il danno biologico, rappresentato dall’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, costituisce un pregiudizio ontologicamente diverso dal cd. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute; entrambi devono essere risarciti.

La misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema cosiddetto “del punto variabile”) può essere poi aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali e del tutto peculiari.

Su tali basi, la Cassazione rinviava il giudizio nuovamente alla Corte d’Appello di Genova, in diversa composizione, al fine di attenersi ai principi sopra enunciati, così puntualmente esplicitati: ferma la voce di danno biologico tout court, riconosciuto nella misura del 15% e congruamente incrementato dalla Corte d’Appello nella misura del 50%, i giudici di appello dovranno provvedere alla liquidazione di una autonoma voce di
danno per il pregiudizio intrinseco, personale, connesso alla sofferenza interiore, valutato in considerazione anche della giovane età della danneggiata e della situazione familiare e personale della stessa.

Di fatto, l’aumento del 50% del danno biologico, così come effettuato dalla Corte di Appello di Genova, è stato ritenuto un’estensione del danno psichico, costituente un ramo del danno biologico; altro è, invece, il danno morale, ossia la sofferenza personale della persona, sia sul piano prettamente interiore, sia sul piano relazionale.

Ed è sull’aspetto del danno morale che la Corte d’Appello sarà tenuta a svolgere nuove ed ulteriori quantificazioni.

* * *

Parlo della responsabilità del datore di lavoro in conseguenza di lesioni dovute ad abusi sessuali consumati sul luogo di lavoro, sul mio canale youtube, raggiungibile a questo link:

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