E’ possibile fornire la prova, all’interno di un processo, senza il corredo di un documento, senza una testimonianza, senza una confessione od un giuramento?
E’ possibile che soltanto attraverso un ragionamento si possa certificare il diritto rivendicato in giudizio?
Il nostro modo di ragionare è figlio della logica di Aristotele, sommo teorizzatore del “ragionamento perfetto”, tramite il quale la conclusione di ogni congettura viene fatta derivare dalle premesse; esse assumono un valore generale, per qualsiasi fattispecie venga ipotizzata ed applicata al principio già teorizzato a livello universale.
Si tratta del sillogismo, ossia dell’unione di una premessa maggiore e di una premessa minore, dalla quale deriva sempre una conclusione inconfutabile, sia chiaro, a livello logico.
Ebbene, per rispondere alla domanda di apertura, anche all’interno di un processo, se si riesce a fare un uso corretto del sillogismo aristotelico, è possibile fornire la prova di un fatto facente parte della materia del contendere, non tramite la valutazione di uno specifico mezzo di prova, ma attraverso il semplice ragionamento.
Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato, come evidenzia il dettato dell’articolo 2727 del codice civile.
In alcuni casi la legge facilita il compito, perché l’ordinamento fa dei ragionamenti “a monte” e li teorizza all’interno di normative cogenti, statuendone il rispetto da parte di tutti.
Si tratta delle presunzioni legali, ossia quelle ipotesi tramite cui il legislatore risale, in via logico-deduttiva, da un fatto noto ad uno ignoto.
A loro volta le presunzioni legali possono essere assolute (“praesumptiones iuris et de iure”) oppure relative (“praesumptiones iuris tantum”).
E’, ad esempio, una presunzione assoluta l’art. 186 del Codice della Strada, che disciplina le sanzioni per la guida in stato di ebbrezza, per tale da considerarsi quella riferita alla quantità di alcool assorbita dal sangue, misurata in grammi per litro: si tratta di una presunzione che fa ritenere il soggetto “in stato di ebbrezza” ogni volta che sia verificato lo sconfinamento al di sopra del tasso di alcolemia massimo permesso, senza possibilità di prova contraria a titolo di esimente.
Invece, la presunzione legale relativa determina l’inversione dell’onere della prova, dispensando da qualunque prova colui a favore della quale essa viene stabilita (ai sensi dell’art. 2728 del codice civile), mentre l’altra parte può sempre provare il contrario.
Un esempio eclatante di presunzione relativa è il “redditometro”, strumento con cui l’ordinamento fiscale prova in giudizio la ricorrenza dei presupposti di legge, mentre spetta al contribuente, per vincere la presunzione legale, l’onere di fornire la prova contraria (ad esempio circostanziando sul possesso di un reddito minore di quello presunto).
Esistono anche presunzioni semplici. ricavate dal giudice e non dalla legge.
In tali casi, tuttavia, l’art. 2729 del codice civile prevede l’ammissione di presunzioni solo se gravi, precise e concordanti, ossia serie, circostanziate e tutte univocamente in concorso tra di loro, non escludendo, però, che anche una sola presunzione possa esser sufficiente per formare il convincimento del magistrato.
Per niente “a riposo” in questi giorni di coronavirus, la Cassazione sta pubblicando numerose pronunce, molte delle quali acquistano grande rilievo dal punto di vista dei principi espressi.
Lo è senz’altro l’Ordinanza resa dalla Sezione Terza Civile, rubricata al numero 7748, dell’8 aprile 2020.
I Supremi Giudici hanno censurato il ragionamento cui perveniva la Corte d’Appello di Roma, avuto riguardo al risarcimento del danno non patrimoniale rivendicato dai parenti della vittima di un incidente stradale.
I giudici di appello, infatti, evidenziavano che il danno morale dei congiunti in tanto poteva esser soggetto ad un risarcimento economico, in quanto fosse stata fornita la prova circostanziata del “totale sconvolgimento delle abitudini di vita del nucleo familiare su cui si sono riverberate quali conseguenze gli effetti dell’evento traumatico subito dal familiare”.
Un dictum, questo della Corte di Appello di Roma, che avrebbe limitato in maniera clamorosa la risarcibilità delle sofferenze e dei patemi morali patiti dai parenti di una vittima della strada, laddove la “probatio” pretesa nella sentenza di gravame, non fosse stata riformata in sede di legittimità, come per fortuna è stato.
I Supremi Giudici anzitutto rammentano che il danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale patita dal prossimo congiunto di persona lesa in modo non lieve dall’altrui illecito, ben può essere dimostrato con ricorso alla prova presuntiva ed in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza ed alla gravità delle ricadute della condotta.
Ebbene, la decisione della corte d’appello era errata proprio in sede di premessa: il sillogisma su cui fondavano le proprie conclusioni i giudici di gravame era fondato sul fatto che il danno risarcibile ai congiunti per le lesioni patite dal parente, vittima primaria dell’illecito, potesse essere solamente quello consistente nel “totale sconvolgimento delle abitudini di vita”.
Ed invero, continua la Cassazione nelle sue osservazioni, suddetta limitazione non ha alcuna ragion d’essere.
Dalle lesioni inferte a taluno possono derivare, in astratto, per i congiunti, sia una sofferenza d’animo (danno morale) – che non produce necessariamente uno “sconvolgimento” delle abitudini di vita – , sia un danno biologico (come il sopravvenire di una patologia), anche essa senza rilevanza alcuna sulle abitudini di vita.
Il danno dei congiunti è qui invocato “iure proprio”.
Si parla spesso impropriamente di “danno riflesso”, cioè di un danno subito per una lesione inferta non a sé stessi, ma ad altri.
In realtà, il danno subito dai congiunti è diretto, non riflesso, ossia è la diretta conseguenza della lesione inferta al parente prossimo, la quale rileva dunque come “fatto plurioffensivo”, che ha vittime diverse, ma egualmente dirette.
Ed anche impropriamente allora, se non per mera esigenza descrittiva, si parla di vittime secondarie.
Con la conseguenza che la lesione della persona di taluno può provocare nei congiunti sia una sofferenza d’animo sia una perdita vera e propria di salute, come una incidenza sulle abitudini di vita.
Ciò postulato, la Suprema Corte dà vita al principio di diritto:
Non v’è motivo di ritenere questi pregiudizi soggetti ad una prova più rigorosa degli altri, e dunque insuscettibili di essere dimostrati per presunzioni.
E tra le presunzioni assume ovviamente rilievo il rapporto di stretta parentela (nella fattispecie, genitori e fratelli) tra la vittima in primis, per cosi dire, ed i suoi congiunti.
Il rapporto di stretta parentela esistente fa presumere, secondo un criterio di normalità sociale (ossia ciò che solitamente accade) che genitori e fratelli soffrano per le gravissime permanenti lesioni riportate dal congiunto prossimo.
Non occorre, concludono i Supremi Giudici, che le sofferenze patite dai prossimi congiunti del danneggiato principale, si traducano in uno “sconvolgimento delle abitudini di vita”, in quanto si tratta di conseguenze estranee al danno morale, che è piuttosto la soggettiva perturbazione dello stato d’animo, il patema, la sofferenza interiore della vittima, a prescindere dalla circostanza che influisca o meno sulle abitudini di vita.
Un secondo solo …….
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