Il rapporto coniugale a tu per tu con lo specchio. Cosa si cela dietro l’immagine della famiglia perfetta?

Negli anni Novanta era sufficiente accendere una televisione per pochi minuti per venire sommersi da continui messaggi di vita familiare gioiosa, sorridente e bucolica, regalatici dalla pubblicità di una nota azienda alimentare, che tuttora popola le nostre dispense col marchio di un bianco mulino.

L’idea di una famiglia ideale rappresenta un’icona dietro la quale ci si può rifugiare per schermare gli occhi sempre più indiscreti degli “altri”, tratteggiando l’immagine dell’armonia, della perfezione, dei buoni sentimenti, di una vita realizzata e piena.

Non occorreva attendere la nota famiglia della pubblicità per comprendere come questa operazione di mistificazione, tenuta fittiziamente in piedi per ingannare noi stessi, prim’ancora che la società ed i suoi stereotipi di condotta, non ha mai funzionato nella storia dell’uomo.

Il “Ritratto dei coniugi Arnolfini, custodito nella National Gallery di Londra, prese luce nel 1434 dai mirabili tratti di Jan Van Eyck ed è considerato come una delle opere più importanti della pittura fiamminga.

Dietro questo dipinto si celano significati ancor oggi oggetto di interpretazione da parte dei critici d’arte, degli psicologi, dei sociologi.

Il pennello dell’artista ci propone il ricco mercante toscano Giovanni Arnolfini, accompagnato dalla sua consorte Costanza Trenta, all’interno di uno scenario di vita domestica lussuoso e carico di significati.

Jan_van_Eyck_Ritratto_coniugi_Arnolfini

Il mercante prende la mano della moglie come per rendere un giuramento solenne; la signora viene rappresentata con un largo e costoso vestito, con guarnizioni di pelliccia d’ermellino, con un rigonfiamento sulla pancia a simboleggiare la maternità; lo stesso colore del vestito, il verde, è sinonimo di vita, di rinascita. In basso, al centro, c’è un cagnolino, simbolo di fedeltà ed in alto c’è uno stupendo candelabro lavorato, con una sola fiammella accesa, metafora dell’esclusività dell’amore; i coniugi sono scalzi, per testimoniare la sacralità del loro vincolo coniugale, e sulla sinistra, sul mobile e sul davanzale, compaiono delle arance, simbolo di floridità e ricchezza.

Si scorge a centro quadro uno specchio, dalla visione del quale si nota la presenza di due figure, che assistono alla scena principale, una vestita in blu, l’altra in rosso; tra di loro sicuramente c’è proprio l’artista Van Eyck (e la cosa viene ribadita anche nell’incisione sopra lo specchio): è questa una vera e propria consacrazione del matrimonio, per il tramite di due testimoni presenti davanti agli sposi.

Un vero e proprio inno ai valori della famiglia e della procreazione.

Eppure, quello stesso quadro può esser letto in maniera diametralmente opposta.

Il noto scrittore Paulo Coelho ne “Il vincitore è solo”, scriveva: “Lo specchio riflette in modo esatto: non commette errori perché non pensa“.

Ma cosa riflette davvero quello specchio della casa Arnolfini?

specchio

Si guardi all’immagine del mercante, avvolta in una sorta di nuvola fumosa; si guardi ancora al centro: al posto delle mani dei coniugi che si uniscono nel gesto solenne, è inserita una macchia nera, tanto più incredibile quanto più si rifletta sulla minuziosità del dipinto fiammingo: non è certo frutto di un’imprecisione pittorica.

Nello specchio sparisce anche la figura del cane fedele.

Le stesse arance, chiamate “mele di Adamo” nel Nord Europa, possono ricondurre al peccato originale.

Ebbene, il mercante Arnolfini era noto per essere un marito infedele ed anche un uomo violento.

La scena potrebbe non essere un gesto solenne di consacrazione del matrimonio, ma una sorta di esorcismo per recuperare la fertilità, come dedotto da alcuni critici importanti.

Di certo, lo specchio racconta proprio un’altra storia rispetto a quella di un rapporto coniugale perfetto.

Ne parlo in questo video, inserito sul mio canale YouTube:

 

Dietro l’immagine impeccabile, sorridente, allegra di una famiglia, si possono celare le criticità più impensabili.

Atti violenti, intimidazioni, oppressioni, azioni di persecuzione e di mortificazione morale, privazioni fisiche e psichiche, offese continue, imposizioni, ostacoli, vessazioni: si tratta di condotte qualificate come mobbing familiare.

Non infrequenti sono strategie maliziose e persecutorie da parte di uno dei due coniugi, furbescamente preordinate al fine di costringere l’altro coniuge ad abbandonare la casa coniugale, o anche per prestare consenso ad una separazione consensuale, sebbene non interamente condivisa nelle condizioni, e dunque spesso con rinunce sanguinose sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista della regolamentazione dei rapporti con i figli minori.

La Suprema Corte richiede che a fini dell’addebitabilità della separazione, i tribunali debbano accertare se la frattura del rapporto coniugale sia stata cagionata dalla condotta oggettivamente trasgressiva di uno o di entrambi i coniugi, e quindi se sussista un rapporto di causalità tra detta condotta ed il verificarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza.

Per questo, assume importanza fondamentale il reperimento delle prove da produrre in giudizio, onde certificare lo stato di oppressione e di vessazione patito, tali da dimostrare la non ulteriore procrastinabilità della relazione matrimoniale, per fatto e colpa esclusivi del coniuge oppressore.

Con Ordinanza resa dalla Sezione Prima della Cassazione, rubricata al numero 21296/2017, i Supremi Giudici hanno evidenziato che atti vessatori del marito, che costringe la moglie a lasciare il tetto coniugale, rappresentano senz’altro motivo di addebito.

E’ proprio questo uno dei casi in cui l’abbandono del tetto coniugale non può e non deve costituire la base per la dichiarazione di addebito, poichè causalmente determinato da una preesistente situazione di sopruso, vessazione, violenza psicofisica, che rendeva non ulteriormente proseguibile la convivenza della coppia.

Importante è l’indagine sulla situazione concreta. Così precisa ancora la Cassazione nella pronuncia sopra richiamata:

“l’addebito non può essere attribuito al coniuge che abbia abbandonato la casa coniugale, se detto abbandono sia stato dettato dall’intollerabilità data dalla convivenza”.

Ovviamente, unitamente alla declaratoria di addebito può esser promossa azione per richiedere il risarcimento dei danni psicofisici subiti in conseguenza delle azioni mobbizzanti delle quali il coniuge è rimasto vittima.

Tornando ai coniugi Arnolfini… una lettura per questi giorni di quarantena? “Il mistero Arnolfini” dello scrittore Jean Philippe Postel.

Un secondo solo …….     

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