Lo “stalking” è un fenomeno tipizzato dal nostro ordinamento tramite il dettato dell’articolo 612 bis del codice penale; esso si caratterizza per una moltitudine di comportamenti aggressivi, molesti o minacciosi, posti in essere da una persona che si intromette in maniera reiterata, indesiderata e con fare persecutorio, all’interno della vita privata di un’altra persona, minandone l’equilibrio psicofisico ed in alcuni casi ponendo a repentaglio l’incolumità della vittima.
Le motivazioni più frequenti che muovono le azioni riprovevoli dello stalker derivano dalla fine di una relazione amorosa e, conseguentemente, dal rancore e dalla volontà di “vendetta” da parte di chi non accetta la “sconfitta” sentimentale, si sente abbandonato e svilito dal rifiuto opposto dall’ex partner.
Le degenerazioni che possono esser partorite e messe in atto dalla mente di uno stalker purtroppo possono essere le più disparate, drammatiche ed agghiaccianti, portando frequentemente alla consumazione di fatti di sangue.
Prima ancora che a conseguenze di carattere fisico, la vittima viene assoggettata ad un vero e proprio dramma psicologico sin dall’origine, risultando martirizzata nella propria intimità, violata nella sfera del quotidiano e soggiogata da manovre persecutorie che ledono la stabilità personale e la socialità.
L’artista contemporanea Giulia Martino ha realizzato dei dipinti stupendi per l’Osservatorio Nazionale Stalking.
Nell’opera denominata “Stalk1” viene rappresentata la trasfigurazione di un buco di una serratura, attraverso il quale il carnefice, in posizione dominante e travolgente, controlla prima di tutto la psiche della propria vittima, divenendo l’ossessione costante dei pensieri di quella persona.
In questa sede s’intende richiamare due distinte fattispecie giuridiche nelle quali purtroppo il fenomeno di stalking hanno rappresentato una vera e propria degenerazione della serenità e della quotidianità di vita della malcapitata vittima.
E’ dello scorso 25 maggio la notizia della Sentenza emessa dal Tribunale Penale di Busto Arsizio nei confronti di Sara Del Mastro. La donna, trentottenne di Legnano, è stata condannata alla pena di reclusione di anni sette e mesi dieci più due di libertà condizionata per aver sfigurato con l’acido l’ex compagno Giuseppe Morgante.
Lo studio legale che difende la vittima sta attendendo il deposito delle motivazioni per valutare la possibilità di appellare una pronuncia che appare troppo mite, non avendo riconosciuto la premeditazione (sebbene l’imputata lungo l’istruttoria processuale avesse confessato di aver comprato l’acido il giorno prima della vile aggressione).
Ma soprattutto risulta giuridicamente interessante la prospettiva, preannunciata dall’avvocato dell’offeso, di richiedere un risarcimento danni nei confronti dello Stato, poiché le ripetute richieste di protezione da parte del Signor Morgante, purtroppo, venivano tutte disattese da parte delle Autorità territoriali.
Non si conoscono i fatti circostanziati delle vicende preliminari al fatto poi assurto ai clamori della cronaca.
Però appare lampante il riferimento ad una colpevole inerzia dell’apparato statale davanti alle richieste di protezione formalizzate da un cittadino minacciato.
Inerzia che già ha ha ricevuto formali condanne nel corso del tempo, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, nei confronti dello Stato italiano, per violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani e degradanti, nonché del divieto di discriminazione, allorquando le autorità di pubblica sicurezza non intervengono per proteggere persone vittime di comportamenti meritevoli di tutela preventiva.
Ma lo stalking può avere ripercussioni anche sul mondo del lavoro.
La Sezione Lavoro della Suprema Corte, con Sentenza dello scorso 28 gennaio rubricata al numero 1890, ha evidenziato che non deve considerarsi sproporzionato un provvedimento datoriale di licenziamento per giusta causa, laddove un dipendente si renda responsabile di stalking nei riguardi di una propria collega.
Nello specifico il lavoratore aveva dato seguito a condotte di ripetuti invii di messaggi telefonici alla propria collega, con contenuti che riportavano indebite allusioni di natura intima e sessuale, paventando lo stalker l’ipotesi di esibire, al marito della collega di lavoro, fotografie e riproduzioni video di contenuto erotico; inoltre il dipendente licenziato si era spinto sino a dar seguito a pedinamenti della donna e alla diffusione indebita del numero telefonico di costei nei bagni di luoghi pubblici, con l’invito a contattarla per riferite prestazioni sessuali.
Nella parte motiva della Sentenza della Cassazione viene evidenziato che nessun pregio rivestiva l’obiezione del lavoratore licenziato, ricorrente davanti ai Supremi Giudici, perchè la fattispecie al medesimo contestata non faceva parte di quelle ipotesi tipizzate all’interno del contratto collettivo della categoria merceologica riferita all’attività prestata.
A tal riguardo, così evidenziava la Corte:
la giusta causa di licenziamento è nozione legale, rispetto alla quale non sono vincolanti (al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo) le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, con il solo limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (Cass. 24 ottobre 2018, n. 27004; Cass. 16 luglio 2019, n. 19023).
Ed infatti, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva ai fini dell’apprezzamento della giusta causa di recesso, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, purché vengano valorizzati elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, coerenti con la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che con i principi radicati nella coscienza sociale, idonei a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario (Cass. 7 novembre 2018, n. 28492; Cass. 23 maggio 2019, n. 14063).
Non v’è dubbio che le condotte deplorevoli di stalking poste in essere da quel lavoratore rientrassero senz’altro nella scala di valori propria della giusta causa, così come codificata anche dallo specifico contratto collettivo di lavoro; come non v’è dubbio che quelle condotte richiamassero, ancor prima di una valutazione da parte del CCNL del settore, indici universali di biasimo e di massima riprovazione, così come promananti dalla comune coscienza sociale.