Non v’è dubbio che il tradimento più famoso di tutta la storia antica sia stato quello di Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, rapita furtivamente dal troiano Paride con il benestare ed i favori della dea Afrodite.
Il pittore Jacques Louis David nel 1788 realizzò un dipinto stupendo che ritrae il rapitore e la splendida fanciulla, effettivamente non proprio traumatizzata dagli eventi, stando all’interpretazione resa dall’artista francese, oggi esposta al museo del Louvre.
Il celeberrimo tradimento diede origine alla guerra di Troia ed impose la furiosa reazione dei greci nei confronti del popolo troiano.
Una volta entrato nella città di Troia, Menelao fuoriuscì furtivamente, insieme ai compagni, dall’ingegnoso “caval donato” e si andò a riprendere la moglie, nonostante le “corna”.
Il vendicativo re di Sparta per riprendersi la moglie dovette uccidere anche Deifobo, fratello di Paride che nel frattempo era divenuto marito della bellissima fanciulla, dopo che il rapitore della donna cadde in battaglia per mano del greco Filottete.
Dunque questa è anche la storia del perdono più famoso della storia antica, in quanto Menelao se ne tornò a casa sereno con la moglie riabilitata.
Parlare del perdono successivo ad un tradimento coinvolge aspetti psicologici e morali sui quali sono presenti infiniti interventi di autorevoli studiosi.
Dal punto di vista giuridico, è interessante verificare come i giudici possano interpretare l’atto del perdono coniugale, laddove il coniuge che ha concesso il perdono intenda in un secondo momento chiedere l’addebito nei confronti del coniuge che compì l’adulterio (pur oggetto di un’iniziale assoluzione).
Se ne è occupato il Tribunale di Roma all’interno di una vicenda che costituisce un precedente giurisprudenziale spesso richiamato nelle difese dei legali all’interno dei procedimenti di divorzio.
Si tratta della Sentenza n. 18488 del 28 settembre 2015.
Anzitutto il Collegio romano ha richiamato le deduzioni spesso ripercorse dalla Cassazione, laddove si rileva come il tradimento non costituisca di per sé un motivo sufficiente per la declaratoria di addebito a carico in capo al coniuge fedifrago.
Occorre infatti la presenza costante del nesso di causalità tra la violazione del dovere di fedeltà, da un lato, e la rottura del “consortium” familiare, dall’altro lato, nonché l’effettuazione di un’indagine comparativa delle condotte dei coniugi, non valutabili separatamente, volta ad evidenziare se la condotta incriminata sia la causa e non invece la conseguenza di una crisi familiare già in corso d’essere.
Quanto alla richiesta di addebito formalizzata da un coniuge (nella specie, il marito), nei confronto dell’altro coniuge adultero, ma poi oggetto di perdono perché riaccolto per lungo tempo nella casa familiare, il Tribunale di Roma ha evidenziato quanto segue:
La consapevolezza da parte del marito della persistente relazione della moglie con un altro uomo, che non gli ha impedito a convivere con costei per oltre tre anni dividendo lo stesso tetto, esclude di per sé che sia intercorsa alcuna violazione del “pactum fiduciae” posto alla base dell’unione matrimoniale.
Ciò in quanto i giudici rilevavano come il naufragio del rapporto di coppia derivasse non già della relazione adultera, peraltro risalente nel tempo, ma da un contesto generale di disgregazione della comunione spirituale e materiale.
Medesime considerazioni debbono esser formalizzate avuto riguardo ad ipotesi di tradimenti “tollerati”, in quanto consumati in un passato, anche risalente negli anni, e poi comunque oggetto di una sorta di tacita acquiescenza da parte del coniuge tradito.
Ebbene, anche in tal caso nessun addebito a carico del coniuge adultero.
La vicenda è stata trattata dalla Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione in una nota Sentenza del 2010 ancora oggi validissima (rubricata al numero 25560).
Nella parte motiva della pronuncia i Supremi Giudici analizzavano tanto l’ipotesi del tradimento consumato in un clima già di aperto conflitto, quanto l’ipotesi del tradimento continuato, e pur tuttavia tollerato dall’altro coniuge.
In ogni caso, rilevava la Cassazione che il presupposto dell’addebito è sempre rappresentato dal nesso causale che deve intercorrere tra la violazione dei doveri coniugali e la crisi dell’unione familiare, che va accertato verificando se la relazione extraconiugale, che di regola si presume causa efficiente di situazione d’intollerabilità della convivenza rappresentando violazione particolarmente grave, non risulti comunque priva di efficienza causale, siccome interviene in un “menage” già compromesso, ovvero perché, nonostante tutto, la coppia ne abbia superato le conseguenze recuperando un rapporto armonico.
Più nello specifico, la Corte rilevava come il comportamento di una moglie fedifraga, ma all’interno di un contesto che già palesava evidenti segnali di crisi di coppia, fosse senz’altro contrario ai doveri coniugali, ma, nondimeno, non poteva ad esso ascriversi la crisi insanabile intervenuta nella coppia che conduceva all’epilogo del rapporto matrimoniale.
Un secondo solo ….…
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