La dote era l’insieme del patrimonio conferito dalla sposa (o comunque dalla famiglia della sposa) al proprio marito, nel momento in cui si celebravano le nozze.
Il testo dell’art. 177 del codice civile, precedente alle modifiche apportate dalla Legge 151 del 1975 di riforma del diritto di famiglia, prevedeva che la dote consistesse “in quei beni che la moglie, o altri per essa, apporta espressamente a questo titolo al marito per sostenere i pesi del matrimonio”.
Nell’antica Roma veniva chiamata “dos” ogni tipo di attribuzione in beni mobili o immobili, in danaro o altri beni, che la moglie, o il suo pater familias, o una terza persona perfezionava in favore del marito, al fine di sostenere gli oneri del matrimonio e del successivo rapporto di coniugio.
Durante la vita della coppia, l’amministrazione del patrimonio dotale era attribuita in via esclusiva al marito; nell’espletamento di tale incombenza, egli doveva custodire e curare i beni conferiti in dote dalla moglie, adottando la diligenza del buon padre di famiglia e rispondendo della loro perdita o del loro deterioramento, sia in caso di dolo, sia in caso di colpa grave o anche colpa lieve.
Qualora il matrimonio venisse sciolto, il marito doveva restituire la dote alla moglie, o al suo parente più stretto (qualora il pater familias fosse defunto), o al terzo che avesse costituito la dote medesima. Venne costituita una specifica azione giudiziale a tutela della moglie che divorziava, al fine di riottenere dal marito i beni dotali, ovvero l’actio rei uxoriae. Il processo attivato dall’ex moglie nei confronti dell’ex marito renitente prevedeva che il giudice pervenisse ad una condanna alla restituzione di quella parte di dote che si sarebbe ritenuto più conveniente ed equo rendere in favore della donna; dunque, si trattava di un giudizio di equità molto legato a valutazioni personali della persona del giudicante.
Dopo il periodo barbarico, durante il quale l’istituto della dote non venne coltivato, intorno al Dodicesimo Secolo il patrimonio dotale si sviluppò molto sul territorio italiano e venne giuridicamente disciplinato: si distingueva tra la dos aestimata (costituita dai beni il cui valore era stato stimato al momento della costituzione della dote, al fine di facilitare al marito l’adempimento dell’obbligo di restituzione del valore, in caso di scioglimento del matrimonio, nell’ipotesi in cui i beni dotali andassero distrutti o si deteriorassero) e la dos inaestimata (in quest’ultimo caso suddetti beni venivano considerati come inalienabili, anche in caso di consenso della moglie).
Tradizionalmente nell’Italia medievale, all’interno delle famiglie di origine umile e contadina, la dote era costituita da una cassapanca contenente il corredo, che doveva consistere di un certo numero di lenzuola, tovaglie, piatti, bicchieri ed altre suppellettili per la casa.
Oggi l’art. 166 bis del codice civile sancisce esplicitamente con la nullità qualsiasi convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote.