Il reddito di cittadinanza, introdotto dal D.L. n. 4 del 2009, prevede, per tutti coloro che hanno un ISEE al di sotto della soglia di 9.360,00 euro, un’erogazione, da parte dello Stato, di un importo di 780 euro ogni mese, per un totale di 18 mesi, rinnovabili per altri 18.
L’intera famiglia dell’avente diritto deve sottoscrivere un “patto per il lavoro” e rendersi disponibile a cercare un’occupazione nel raggio di 100 chilometri (limite che potrebbe essere superato al rinnovo dei secondi 18 mesi).
Il rifiuto di una sola offerta di lavoro, pervenuta per il tramite di un centro per l’impiego, farà cadere il beneficio.
E’ controverso se il reddito di cittadinanza possa esser soggetto a pignoramento, al fine di soddisfare i creditori del percettore della misura di sostegno al lavoro.
Va detto che non si tratta di un emolumento di natura alimentare, ossia una prestazione di assistenza materiale verso chi si trovi in stato di bisogno economico anche se per propria colpa.
Gli alimenti sono assolutamente impignorabili, ai sensi dell’art. 545 comma I del codice di procedura civile, a meno che non si tratti a sua volta di una causa di alimenti, e sempre dietro l’autorizzazione del presidente del tribunale o di un giudice da lui delegato, e solamente per la parte dal medesimo determinata mediante decreto.
Neppure si può dire che il reddito di cittadinanza sia un credito avente per oggetto sussidi di grazia o di sostentamento a persone comprese nell’elenco dei poveri, previsti dall’art. 545 comma II del codice di procedura civile ed anch’essi non assoggettabili ad azione espropriativa alcuna.
L’art. 1 del D.L. n. 4/2019 evidenzia infatti come si tratti di misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale.
Va detto che il Ministero del Lavoro, con nota rubricata al protocollo 1631/2020, ha rilevato che anche il reddito di cittadinanza dovrebbe essere inserito alla categoria dei “sussidi”, come maternità, gli emolumenti per le malattie e così via.
Il reddito di cittadinanza, a detta della nota ministeriale, nasce come strumento economico al fine di sostenere le famiglie ed i cittadini meno abbienti; la misura dunque si attiverebbe solo all’interno di contesti sociali particolarmente disagiati, proprio al fine di ridurre le disuguaglianze sociali.
Ne discenderebbe l’impignorabilità dell’assegno corrisposto dallo Stato al beneficiario.
Tale interpretazione va doverosamente controbilanciata con provvedimenti sempre più diffusi intrapresi dai giudici di merito, i quali, all’interno dei giudizi conseguenziali a separazioni, divorzi e comunque cause di diritto di famiglia, stanno disciplinando l’assoggettabilità del reddito di cittadinanza al fine di garantire l’assegno di mantenimento in favore dell’ex coniuge.
Si badi bene: non si tratta di crediti alimentari, per i quali la pignorabilità è già garantita dall’art. 545 comma I c.p.c. nei modi già riferiti.
Sia ulteriormente aggiunto che le norme che disciplinano divieti di pignorabilità sono assolutamente tassative e rivestono natura eccezionale rispetto al principio generale della responsabilità patrimoniale del debitore, di cui all’art. 2740 del codice civile (“Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”), per cui i predetti limiti di pignorabilità non possono essere interpretati estensivamente.
Sulla scorta di simili postulati, con Sentenza del 30 gennaio 2020 il Tribunale di Trani ha disposto la possibilità di esperire in modo fattivo un’azione esecutiva contro un reddito di cittadinanza fruito da un coniuge inadempiente verso gli obblighi di mantenimento, rilevando quanto appresso:
Deve ritenersi pignorabile, senza l’osservanza dei limiti di cui all’art. 545 c.p.c., il reddito di cittadinanza, stante l’assenza nel testo del decreto istitutivo di qualunque riferimento alla natura alimentare di detto reddito ed il carattere predominante di misura di politica attiva dell’occupazione
Dall’ammissione della pignorabilità del reddito di cittadinanza si può dedurre anche la possibilità di ottenere, sempre giudizialmente, un ordine di pagamento diretto verso il coniuge creditore insoddisfatto, di una quota del reddito di cittadinanza corrisposto dallo Stato al coniuge beneficiario ed inadempiente ai propri obblighi di contribuzione, così come statuiti in sede di separazione o divorzio.
Peraltro, simile prospettazione non esclude che altri creditori, ad esempio fornitori insoddisfatti del soggetto beneficiario del reddito di cittadinanza, o banche che rivendicano un finanziamento non onorato, possano azionare in executivis tale fonte di reddito corrisposta dallo Stato, e trovare il consenso all’azione da parte del Giudice dell’esecuzione chiamato a regolamentare l’iter espropriativo.
Sia precisato che, contrariamente al reddito di cittadinanza, la pensione di cittadinanza non è affatto una misura di politica attiva del lavoro, essendo invece indirizzata proprio a tutti coloro che non possono più lavorare e rivestendo, pertanto, la sola finalità di contrastare la povertà.
Appare dunque corretto inserire le pensioni di cittadinanza all’interno del disposto dell’art. 545 c. II c.p.c., che ne esclude a monte la pignorabilità.