Sono lontani i tempi di un’Italia che stava per affacciarsi al Novecento, quando il rispetto verso l’istituzione scolastica e gli insegnanti, da parte degli alunni, era una sacralità intoccabile.
Il Maestro Perboni veniva tratteggiato con la sua aria austera e compita dalla penna di Edmondo De Amicis nel libro Cuore:
Egli rispondeva: – Buon giorno, – stringeva le mani che gli porgevano; ma non guardava nessuno, ad ogni saluto rimaneva serio, con la sua ruga diritta sulla fronte, voltato verso la finestra, e guardava il tetto della casa di faccia, e invece di rallegrarsi di quei saluti, pareva che ne soffrisse.
Per non parlare dei maestri nel corso dei secoli passati, sempre visti come autorità cui porgere deferenza e rispetto assoluto.
E’ davvero godibile l’opera dell’artista olandese Jan Steen intitolata “Il Maestro di Scuola”, nella quale viene ritratto un duro precettore che, dotato del robusto cucchiaio di legno, non lesina punizioni verso i giovani intemperanti.
Oggi l’autorità del corpo docente nelle scuole viene spesso confusa e rigettata da alunni e, prim’ancora, da genitori che operano un’abusiva deviazione verso le più comuni regole di vivere civile e di rispetto dei ruoli e delle persone.
Una vicenda recente trattata dalla Corte di Cassazione è esemplificativa di questo clima di degrado di valori, prim’ancora che di violazione di norme poste dall’ordinamento a presidio della buona educazione e della dignità e della professionalità dei maestri delle scuole.
Si tratta dell’Ordinanza n. 9059 del 12 aprile 2018, resa dalla Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione.
Nel settembre del 1998 una maestra di scuola elementare fece causa, davanti al Tribunale di Pisa, al padre di un’alunno, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti a seguito della condotta gravemente diffamatoria ripetutamente tenuta dal convenuto nei suoi confronti.
Esponeva la maestra quanto segue: nella sua qualità di insegnante, la donna era stata ingiustificatamente e violentemente contestata da alcuni genitori, e in particolare dal convenuto, nel corso dell’anno scolastico 1993-94; tra l’altro, la maestra era stata descritta da quest’ultimo come “un mostro” al cospetto degli altri genitori nel corso di una riunione; il genitore aveva poi inviato numerose lettere alla direttrice didattica dell’Istituto, attribuendo all’attrice comportamenti particolarmente gravi nei confronti dei bambini, tanto che, in conseguenza delle sue reiterate affermazioni diffamatorie, ella era stata addirittura sottoposta a valutazione psichiatrica medico-legale; sempre a seguito, tra l’altro, della condotta di questo genitore, la maestra era stata sottoposta procedimento penale, all’esito del quale però venne assolta per insussistenza del fatto; e, nel corso di tale procedimento, era stata sottoposta alla misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio; sempre a causa di tali vicende, cui era stato dato ampio risalto anche da parte della stampa locale, la donna era stata trasferita d’ufficio, suo malgrado, presso un’altra scuola non desiderata.
Si costituì il convenuto contestando la fondatezza della domanda attrice e concludendo per il rigetto della stessa.
Il Tribunale di Pisa, con Sentenza n. 366/2006, rigettò la domanda, ritenendo carente la prova del comportamento illecito, lesivo della reputazione dell’attrice, attribuito al convenuto.
Ritenne, in particolare, il primo giudice che, “non avendo l’attrice intimato i testi ammessi, gli unici indizi erano desumibili dagli atti del procedimento penale instaurato nei confronti della stessa insegnante”, opinando poi che, da tali atti, non fossero emersi indizi gravi precisi e concordanti” relativamente al comportamento dell’uomo.
Riteneva il Tribunale in particolare, che non potessero ritenere “sufficienti” gli indizi volti a dimostrare che il genitore, nella fase organizzativa della riunione indetta presso l’istituto scolastico, avesse pronunciato frasi offensive nei confronti dell’insegnante, definendola “mostro” e comunque “soggetto poco raccomandabile”; inoltre evidenziava che i fatti lamentati in ordine all’applicazione della misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio e del trasferimento d’ufficio dovevano collocarsi ad una notevole distanza dalla riunione in questione; inoltre, per quanto a lettere inviate dal genitore all’istituto scolastico, anch’esse tese a descrivere in senso negativo la maestra, il Tribunale riferiva che si trattava di mere descrizioni di episodi, salvo un fax, in relazione al quale, “pur essendo pacifico che lo stesso potesse essere idoneo alla lesione alla reputazione dell’attrice e non rispettoso dei limiti di continenza”, lo stesso “era purtuttavia inidoneo a giustificare il risarcimento del danno morale in quanto penalmente irrilevante ai sensi dell’art. 599 c.p.c., comma 2”; inoltre “la trasmissione di detto fax risaliva al marzo 1995, epoca in cui la situazione di tensione di conflitto all’interno della scuola tra la maestra e un gruppo di alunni e di corrispondenti genitori costituiva … un fatto notorio ed era perciò inidoneo ad aggiungere elementi diversi ed ulteriori rispetto a quelli già emersi in quella realtà locale”.
La decisione di rigetto veniva confermata anche dalla Corte di Appello di Firenze, con sentenza n. 1729 del 21 ottobre 2014.
La Suprema Corte opera un totale capovolgimento di fronte.
Innanzitutto, per quanto alla valutazione del materiale probatorio, i giudici di legittimità evidenziano che deve essere affermato il principio secondo il quale, al cospetto di una pluralità di fatti storici, ciascuno portatore di una propria, singola valenza indiziaria, il giudice non può procedere alla relativa valutazione attraverso un procedimento logico di scomposizione atomistica di ciascuno di essi, per poi svalutarne, singolarmente e frammentatamente, la relativa efficacia dimostrativa.
Così la Sezione Terza:
La concordanza indiziaria di ciascuno dei fatti acquisiti al processo ne postula … la imprescindibile necessità di una compiuta analisi di tipo sintetico, all’esito di un ragionamento probatorio complesso e sincronico, non potendo evidentemente predicarsi alcuna “concordanza” di ciascun indizio a se medesimo, se la valutazione non segue il necessario percorso logico dell’analisi per sintesi e non per somma (per di più, inammissibilmente scomposta).
La corretta applicazione della regola probatoria dianzi esposta avrebbe inevitabilmente condotto all’approdo di una ben diversa decisione, considerato che la condotta denigratoria ascritta al genitore ebbe diacronicamente a dipanarsi attraverso una serie di atti e comportamenti univocamente e pervicacemente intesi a ledere l’onore, il prestigio e la stessa dignità dell’insegnante.
Le conseguenze, gravissime, della condotta tenuta (anche e soprattutto) dal genitore citato in giudizio – l’essere stata l’insegnante sottoposta a visita psichiatrica; l’essere stata imputata di gravi reati; l’essere stata sospesa dal servizio; l’essere stata trasferita ad altra sede – le cui accuse si sono poi dissolte in una pronuncia del giudice penale di insussistenza dei fatti contestati non sono scriminate né sminuite, come erroneamente ritenevano i giudici di primo e secondo grado, né dalla circostanza che anche altri, insieme al genitore, avrebbero contribuito alla verificazione degli eventi (tale affermazione ponendosi in evidente e irredimibile contrasto con il dettato dell’art. 41 c.p., in tema di con-causalità dell’evento), né dalla accertata diacronia delle condotte – il cui dipanarsi nel tempo costituisce non una scriminante ma, di converso, un aggravante della condotta stessa – né tanto meno “dall’ormai conclamata dimensione collettiva e pubblica” dei fatti, ovvero dalla “autonoma risonanza” che la vicenda avrebbe assunto con lo scorrere del tempo.
Le conclusioni cui pervengono i Supremi Giudici sono perentorie e nette, anche dal punto di vista della condanna morale di condotte diffamanti verso il corpo dei docenti, troppo di frequente minimizzate da un senso comune “moderno”, oramai appiattitosi su concetti di “educazione” ben lontani dalla serietà dal rigore etico propri di una moderna civiltà:
Non è certo compito della giurisdizione sindacare, sul piano etico e sociale, il comportamento dei consociati in una determinata epoca storica, poiché il processo civile (e in particolare quello avente ad oggetto vicende di responsabilità civile) è funzionale ad offrire precise risposte, rigorosamente circoscritte al piano del diritto, a singole vicende che riguardano singole persone che chiedono tutela al giudice.
Ma, specularmente, il giudice civile, nella valutazione e liquidazione del quantum debeatur, non può e non deve ignorare, – quasi che la dimensione della giurisdizione si collochi entro un asettico territorio di pensiero tanto avulso dal reale, quanto insensibile ai mutamenti sociali e culturali in cui essa viene esercitata (in argomento, tra le altre, Cass. 21619/2007, che discorre di “dimensione storica” dei criteri di causalità; Cass. 5146/2018, che ricostruisce espressamente il risarcimento da perdita di chance in termini di scelta “di politica del diritto”) – il preoccupante clima di intolleranza e di violenza, non soltanto verbale, nel quale vivono oggi coloro cui è demandato il processo educativo e formativo delle giovani e giovanissime generazioni.
Alla stregua di questi principi di diritto, la Cassazione rinviava nuovamente la questione alla Corte d’Appello per una rivalutazione complessiva dei fatti.
Un secondo solo ….…
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