La Sezione Lavoro della Cassazione è reiteratamente intervenuta per chiarire un aspetto molto importante riferito alla quotidianità lavorativa di tantissimi dipendenti: quando costoro vengono chiamati a ritirare la busta paga, apponendo conseguentemente la loro firma in calce al documento contabile, non compiono una ricognizione di avvenuto pagamento, da parte del datore di lavoro, in loro favore.
Va precisato che non esiste una presunzione assoluta di corrispondenza della retribuzione percepita dal lavoratore rispetto a quella risultante dalle buste paga, essendo sempre possibile l’accertamento della insussistenza del carattere di “quietanza”, anche avuto riguardo alle sottoscrizioni eventualmente apposte dal lavoratore sulle busta paga medesime.
Invero, l’obbligo, previsto a carico del datore di lavoro dall’art. 1 della Legge n. 4 del 1953, di consegnare ai propri dipendenti, al momento della corresponsione della retribuzione, un prospetto contenente l’indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, non attiene alla prova dell’avvenuto pagamento, per la quale non sono sufficienti le annotazioni contenute nel prospetto stesso, ove il lavoratore ne contesti la corrispondenza alla retribuzione effettivamente erogata.
Ben diverso sarebbe se il lavoratore, unitamente al ritiro della busta paga, rilascia un’effettiva documentazione liberatoria al datore di lavoro, ossia una formale quietanza di pagamento. In caso diverso, resta onere del datore di lavoro fornire la prova rigorosa dei pagamenti effettivamente posti in essere.
L’ordinanza 21699 del 6 settembre 2018 della Suprema Corte ripercorre pronunce già rese dalla Cassazione(come la n. 7310 del 29.05.2001, e la n. 13150 del 24.06.2016) e ribadisce il principio secondo cui le buste paga, ancorché sottoscritte dal lavoratore con la formula “per ricevuta”, costituiscono prova solo della loro avvenuta consegna, ma non anche dell’effettivo pagamento, della cui dimostrazione resta sempre onerato il datore di lavoro, attesa l’assenza di una presunzione assoluta di corrispondenza tra quanto da esse risulta e la retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore.
Quest’ultimo, anzi, può provare l’insussistenza del carattere di quietanza delle sottoscrizioni eventualmente apposte, fermo restando che l’accettazione senza riserve della liquidazione da parte del dipendente al momento della risoluzione del rapporto può assumere significato negoziale, in presenza di altre circostanze precise, concordanti ed obiettivamente concludenti dell’intenzione di accettare l’atto risolutivo.
Come già evidenziato nella Sentenza 245 del 2006, soltanto la sottoscrizione apposta dal dipendente sui documenti fiscali relativi alla sua posizione di lavoratore subordinato – ossia il CUD ed il “modello 101” – costituisce quietanza degli importi ivi indicati come corrisposti da parte del datore di lavoro, assumendo il significato di accettazione del contenuto delle dichiarazioni fiscali e di conferma dell’esattezza dei dati ivi riportati.
Tale liberatoria, si torna ad evidenziare, non è fornita dalla semplice firma per ricevuta della busta paga; ne discende che l’eventuale interpretazione che potrebbe fornire un datore di lavoro, volta ad intendere la firma sul cedolino quale prova di aver versato l’importo indicato sullo stesso, non è da considerarsi valida.
Al riguardo, si richiama anche il disposto della Legge di Bilancio relativa al 2018 (Legge n. 205/2017), laddove all’art. 1, commi da 910 a 914, si è statuito che le buste paga dei dipendenti impiegati nel settore privato, a decorrere dal primo luglio 2018 non possono più essere liquidate in contanti, ma è necessario avvalersi di mezzi telematici che ne traccino la genuinità del pagamento.