Letta in modo lapidario, così come provocatoriamente e laconicamente inserita in questo mio articolo, la domanda ovviamente troverebbe una risposta negativa, perentoria e d’impulso.
Tuttavia, se per diritto al sesso vuol intendersi il diritto di ciascun individuo ad esprimere liberamente la propria sessualità, per essa ricomprendendo la sfera emotiva, passionale, intima e la stessa libertà di realizzare la propria persona anche nel godimento dei piaceri fisici e di una vita di relazione appagante, ebbene la domanda troverà senz’altro risposta positiva.
Il diritto alla libertà nell’espressione della propria sessualità trova fondamento nel dettato dell’articolo 2 della Costituzione, laddove si prevede che la Repubblica tutela i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Ogni persona, dunque, ha diritto ad avere una propria sessualità e di viverla senza discriminazione.
Qualsiasi orientamento sessuale, qualsiasi età (con i limiti dell’età minore), qualsivoglia etnia, razza, lingua, credo religioso, classe sociale, condizione economica, qualsiasi forma di abilità o disabilità fisica, qualsiasi problema psichico non possono e non debbono limitare o precludere il diritto dell’individuo ad esprimere la propria sessualità.
Come corollario di questo diritto inviolabile, sorgono alla mente due distinte fattispecie su cui si confronta quotidianamente il mondo del diritto: da un lato, il diritto ad avere rapporti sessuali in costanza di matrimonio o di unione civile (o anche in caso di semplice convivenza more uxorio); dall’altro lato, la necessità che lo Stato si faccia parte attiva per eliminare, o quanto meno alleggerire i vincoli e le barriere che incontrano nell’approcciarsi liberamente alla sfera sessuale, tutte quelle persone che presentano una disabilità fisica o psichica.
Si osservi la prima fattispecie.
Esiste un diritto, in costanza di rapporto di coniugio o di unione civile, ad avere rapporti sessuali con il proprio partner?
La risposta è affermativa, pur con i limiti imposti dalla necessità, in ogni caso ed in ogni tempo, che sussista il consenso esplicito al rapporto intimo.
La Suprema Corte, con Sentenza n. 2539 del 2014 resa dalla Sezione Sesta Civile, ha evidenziato che se la coppia non intrattiene più rapporti intimi, per diniego esplicitato da un partner nei confronti dell’altro, quest’ultimo non vedrà mai l’addebito ai propri danni della separazione per il fatto di aver intrattenuto rapporti sessuali con un’amante.
In questo caso, la Cassazione ravvisa l’origine della crisi del rapporto matrimoniale non nell’adulterio consumato, ma in un momento antecedente, tant’è che un coniuge già aveva esplicitato la propria volontà di non avere più rapporti sessuali.
Dunque, neppure si potrà parlare di abbandono del tetto coniugale, nel caso in cui il coniuge, vistosi costantemente rifiutato, se ne vada a casa dell’amante.
La pronuncia è molto importante, proprio per specificare l’importanza che la vita sessuale assume nel rapporto di coniugio.
Sia ulteriormente evidenziato che la fattispecie del matrimonio non consumato è proprio uno di quei “casi limite” che consentono di procedere con il divorzio immediato, senza passare per la preventiva separazione.
Certo, non sarà facile istruire un giudizio per divorzio immediato, in quanto sono richieste prove tali da convincere il magistrato sulla mancata “consumazione” del rapporto di coppia: la giurisprudenza ha ammesso l’audizione di testimoni “de relato”, ma soprattutto richiede l’acquisizione di documentazione, medica, idonea a certificare lo stato verginale della donna, o l’impotentia coeundi dell’uomo.
Tanto più è importante la sfera intima e sessuale all’interno del rapporto di coppia, quanto più la si consideri elemento sufficiente per richiedere, da parte del coniuge rifiutato, un risarcimento dei danni nei confronti del coniuge che si è opposto alla relazione intima: con Sentenza n. 6276 resa dalla Sezione Prima della Cassazione, i Supremi Giudici hanno condannato un uomo a risarcire i danni alla moglie, perché costui si era opposto alla consumazione di rapporti sessuali con la consorte, per sette lunghi anni.
Tanto più che se posto in essere in modo volontario, senza che sussistano motivazioni di carattere transeunte o di tipo medico, il rifiuto all’assistenza affettiva verso il proprio partner e, più, in particolare, il rifiuto al rapporto sessuale costituiscono senz’altro motivo di addebito della separazione.
Ciò perché viene reso impossibile, in capo al coniuge vistosi rifiutato, il soddisfacimento delle proprie esigenze di vita dal punto di vista affettivo e l’esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato.
Così la Suprema Corte, in un passo significativo della Sentenza sovra richiamata:
“la valutazione dei comportamenti dei coniugi effettuata dal giudice a quo è conforme a diritto non potendosi dubitare che il rifiuto, protrattosi per ben sette anni, di intrattenere normali rapporti affettivi e sessuali con il coniuge costituisca gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner e situazione che oggettivamente provoca senso di frustrazione e disagio, spesso causa, per come è notorio, di irreversibili danni sul piano dell’equilibrio psicofisico. Consimile contegno, pertanto, configura e integra violazione del dovere di assistenza morale e materiale sancito dall’art.143 c.c., nella cui nozione sono da ricomprendere tutti gli aspetti di sostegno nei quali, con riferimento anche alla sfera affettiva, si estrinseca il concetto di comunione; si tratta, peraltro, di un dovere che non può non essere il riflesso precettivo di quel legame sentimentale sul quale realmente può reggersi e prosperare il rapporto di coppia. Ove volontariamente posto in essere, il rifiuto alla assistenza affettiva ovvero alla prestazione sessuale non può che costituire addebitamento della separazione, rendendo impossibile all’altro il soddisfacimento delle proprie esigenze di vita dal punto di vista affettivo e l’esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato”.
Tuttavia, si presti attenzione: non esiste di per sé un “diritto all’amplesso”, neppure quando la coppia è consolidata, neppure se è legata da unione civile o consacrata da matrimonio.
Con Sentenza n. 42118 del 15 ottobre 2019, la Sezione Terza Penale della Cassazione ha evidenziato che ai fini della sussistenza del dolo di cui al reato di violenza sessuale, è sufficiente che il soggetto agente, sebbene legato da un rapporto di convivenza more uxorio (o anche da un rapporto matrimoniale), abbia la consapevolezza del fatto che non era stato chiaramente manifestato, da parte del partner, il consenso alla consumazione dell’atto sessuale.
Ma ancor più deve considerarsi il fatto che in assenza di indici chiari ed univoci di consenso, il dissenso al rapporto deve ritenersi presunto.
Nel caso di specie, si era giudizialmente accertato che la donna fosse scoppiata in un pianto durante il rapporto con l’uomo.
Questo breve excursus giurisprudenziale testimonia come la sessualità e la manifestazione della propria emotività nel contesto del rapporto intimo, assumano un rilievo cruciale anche nel mondo del diritto.
Come sopra anticipato, ancor più rilievo deve assumere quelle fattispecie laddove sussistono oggettive difficoltà nell’estrinsecazione, in modo libero e sereno, della propria sessualità.
Si tratta delle situazioni di infermità psichica e corporale.
In questi casi sta prendendo piede anche in Italia la figura dell’assistente sessuale per i disabili, o anche operatore per l’emotività (il cosiddetto “love giver“).
Così tratteggia la figura il sito lovegiver.it:
L’assistente sessuale (o meglio, l’operatore all’emotività, all’affettività e alla sessualità, OEAS) è un operatore professionale, uomo o donna, con orientamento bisessuale, eterosessuale o omosessuale, formato da un punto di vista teorico e psicocorporeo sui temi della sessualità. Attraverso la sua professionalità supporta le persone con disabilità (motoria, cognitiva, psichica o sensoriale) a sperimentare un’esperienza erotica, sensuale e/o sessuale che può avere svariate gradazioni.
L’obiettivo generale dell’assistente sessuale è quello di favorire nella persona disabile una maggiore conoscenza e consapevolezza di sé, un rafforzamento dell’autostima ed una più adeguata capacità di prendersi cura del proprio corpo e della propria persona.
articolo completo qui
Durante la XVII Legislatura era stato presentato un progetto di legge in materia di sessualità assistita.
Scopo dell’intervento parlamentare è quello di disciplinare il riparto di competenze tra Ministero della Salute e Regioni, al fine di disciplinare le modalità per abilitare gli assistenti sessuali ed inserirli in un contesto tecnico-professionale.
Le prospettive sono ancora in fase di evoluzione.
[…] scrive ha già parlato di diritto al sesso in un suo precedente intervento (qui il relativo link); ma in questa sede s’intende ulteriormente allargare il campo della […]
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