Il lavoro degli infermieri, gli straordinari e la compensazione delle croniche carenze strutturali

L’attuale situazione di emergenza sanitaria non può non far riflettere sul lavoro eccezionale reso dal personale infermieristico, sia dal punto di vista della qualità professionale assicurata sul campo, sia dal punto di vista della mole enorme di ore di lavoro che debbono essere assicurate nei casi di particolari “picchi” di attività, come nel periodo che stiamo vivendo.

La figura professionale deve garantire un regime di “pronta disponibilità”, ossia una disponibilità immediata ad entrare in servizio, nei momenti di non lavoro, secondo turni prestabiliti dalle strutture sanitarie, e ciò anche durante la notte o i giorni festivi. Ogni infermiere non può coprire più di sei turni in reperibilità al mese.

Tale reperibilità dà diritto ad un’indennità attualmente quantificata dal Contratto collettivo in euro 20,66 lorde, per ogni dodici ore.

A tale gravoso onere va aggiunto quello del lavoro straordinario.

L’art. 31 del CCNL del comparto sanità prevede che lo stesso sia rivolto a fronteggiare situazioni di lavoro eccezionali e, pertanto, non può essere utilizzato come fattore ordinario di programmazione del tempo di lavoro e di copertura dell’orario di lavoro.

Subito dopo, tuttavia, al comma 2 suddetto articolo di fatto introduce lo straordinario cosiddetto “obbligatorio” in quanto la prestazione “è espressamente autorizzata dal dirigente o dal responsabile sulla base delle esigenze organizzative e di servizio individuate dalle Agenzie ed Enti, rimanendo esclusa ogni forma generalizzata di autorizzazione”.

La norma continua evidenziando che il dirigente o responsabile possa “esonerare il lavoratore dall’effettuazione di lavoro straordinario per giustificati motivi di impedimento derivanti da esigenze personali e familiari”.

Sono piovute critiche molto feroci su tale declaratoria contrattuale.

In questo contesto non può non esser ricordato anche l’art. 49 del previgente codice deontologico degli infermieri, che così recitava:

“L’infermiere, nell’interesse primario degli assistiti, compensa le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella struttura in cui opera. Rifiuta la compensazione, documentandone le ragioni, quando sia abituale o ricorrente o comunque pregiudichi sistematicamente il suo mandato professionale”

In molti consideravano questa norma in termini molto negativi, perché il professionista infermiere veniva inteso come figura professionale che, in ragione di valori deontologici supremi, al fine di assicurare la preminenza del bene “salute”, avesse sempre l’obbligo di “compensare” le carenze degli ospedali, delle cliniche e delle strutture sanitarie, per ciò intendendosi non eventuali deficit di colleghi infermieri, ma tutte le carenze e tutti i disservizi, quand’anche questi fossero dovuti alla mancanza di altre figure professionali, con particolare riferimento a quelle di supporto.

Per questo, spesso l’infermiere era costretto dallo stesso Codice a svilenti demansionamenti, perché di fatto coinvolto, in modo anche non marginale, allo svolgimento di ruoli ausiliari, prettamente manuali ed assistenziali, e comunque non propri della figura professionale.

Non infrequenti erano le condotte di datori di lavoro, pubblici e privati, che vessavano la dignità professionale degli infermieri, attribuendo loro, con cadenza continuativa, lo svolgimento di mansioni che in nessun modo potevano dirsi proprie degli ambiti di funzione del personale infermieristico.

Oggi la norma è stata abolita e la stessa giurisprudenza ha dato vita a princìpi di tutela della professionalità degli infermieri.

Con una recente Sentenza, rubricata al numero 6954 del 2019, la Sezione Lavoro del Tribunale Civile di Roma ha evidenziato che l’infermiere prevalentemente adibito allo svolgimento di mansioni inferiori, non rientranti nel proprio inquadramento professionale, ma che per lunghi periodi debba svolgere compiti propri del personale inferiore, subisce un palese danno alla propria immagine professionale, maturando conseguentemente diritto al risarcimento del danno medesimo.

La causa che ha occupato il Tribunale romano vedeva, quale promotore dell’istanza risarcitoria, un infermiere che lamentava di aver svolto, all’interno del proprio luogo di lavoro, mansioni di cosiddetta “assistenza diretta”, non riferibili a quelle proprie dell’infermiere.

Si trattava, sempre secondo la prospettazione resa dall’infermiere che agiva in giudizio, di un vero e proprio demansionamento, trattandosi di attività “igienico-domestiche”, di collocazione “alberghiera”, di puro servizio manuale, come rispondere ai campanelli, alzare ed abbassare lo schienale del letto, aprire una bottiglia, riempire un bicchiere d’acqua, assistere in modo continuativo il singolo paziente.

Il Tribunale romano ha così precisato che quella dell’infermiere è, al pari di altre professioni intellettuali ed anche specificamente sanitarie –  e non dissimilmente da quella medica, attività essenzialmente fondata su un sapere scientifico; anche se si estrinseca in atti di carattere pratico, l’attività infermieristica presuppone necessariamente non un comune “saper fare”, in forza di esperienza ed imitazione, ma un insieme di conoscenze complesse ed articolate, tanto che, ex lege, non può essere esercitata se non da persone che abbiano acquisito titolo di laurea “ad hoc”.

L’infermiere, come ogni altro lavoratore, deve esercitare a tempo pieno le mansioni proprie della categoria di appartenenza, potendo al più sopperire in via complementare, marginale e non continuativa alla mancanza o carenza di personale ausiliario.

In caso contrario, è doveroso il risarcimento del danno patito da tale figura professionale.

Ed è su tali basi che il Tribunale di Roma concludeva per la condanna della struttura sanitaria, a risarcire il danno da demansionamento patito dall’infermiere che agiva in giudizio.

Così il Tribunale romano in alcuni punti della parte motiva della pronuncia richiamata:

in merito all’“an debeatur”

“…. non può negarsi che il ricorrente, oltre a svolgere certo le sue caratteristiche funzioni professionali, nonché quelle connesse di natura strumentale previste dal contratto collettivo per i lavoratori inquadrati nella categoria D, come ad esempio la tenuta di registri (compilazione dei diari infermieristici), e direttamente funzionali alla corretta complessiva gestione del servizio di assistenza, compie ordinariamente e stabilmente mansioni che sono proprie invece della figura dell’operatore socio sanitario o dell’infermiere generico ascritti alla inferiore categoria B, non essendo disponibile affatto (fino al 2015 e da allora nei turni di notte) personale ausiliario o essendo presente (dal 2015 sono nei turni della mattina e del pomeriggio) evidentemente in numero non adeguato a soddisfare le esigenze dei pazienti.

Il ricorrente, quindi, non può esercitare a tempo pieno esclusivamente le mansioni proprie della categoria di appartenenza, dovendo sopperire direttamente e personalmente alla mancanza o carenza di personale ausiliario. Tanto appare in contrasto con il precetto dell’art. 2103 c.c. …”

in merito al “quantum debeatur”

“… in via equitativa, considerato che il danno non patrimoniale è limitato alla mortificazione della immagine e della professionalità del ricorrente (non sono stati allegati infatti danni biologici o esistenziali, né specifici danni patrimoniali), lo stesso può essere determinato commisurandolo ad una quota della retribuzione mensile rappresentando la stessa il valore della prestazione e che può quindi essere utilizzato per individuare, secondo equità, anche il valore della professionalità lesa a causa della dequalificazione (cfr., in motivazione, Cass. civ., sez. lav., 20/11/2017, n. 27460). 

Tale quota, stante la detta limitata entità del danno complessivo subìto (che cioè non si è esteso ad aspetti generali della vita del lavoratore), può determinarsi in misura pari al 25% della retribuzione, per ogni mese di inattività a decorrere dal dicembre 2006 e fino ad ottobre 2018, cioè fino all’inizio del presente giudizio…”

Sulla medesima scia della pronuncia resa dal Tribunale romano, si era già posta la Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Caltanissetta, con Sentenza n. 365 del 2018, laddove si evidenziava che ogni infermiere ha diritto ad “essere infermiere” e, dunque, a svolgere le funzioni per cui è stato assunto e che la legge gli assegna.

In questi giorni non possiamo che onorare la categoria professionale dell’infermiere.

Presidio di efficienza del servizio sanitario nazionale.

Collegamento fiduciario tra medico e paziente.

Professionista specializzato la cui assistenza garantisce la qualità di vita di tutti noi.

Un secondo solo …….     

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