Chi non ricorda l’esilarante film Un pesce di nome Wanda, quando un gruppo di criminali organizza e mette in scena una rapina di gioielli, seminando il terrore tra gli impiegati di una banca.
Momento che rappresenta l’incipit per una storia comica strepitosa, tra le più brillanti e coinvolgenti dell’intera cinematografia.
Certo, chi lavora all’interno di banche, gioiellerie, uffici postali, rivendite di tabacchi, ma anche altri esercizi commerciali, corre sempre il rischio che un gruppo di malintenzionati possa attuare una brutale rapina.
E’ questo il caso di una signora dipendente delle Poste, che ha concluso da pochi giorni il suo percorso giudiziario di tre lunghi gradi di giudizio, ottenendo conferma finale delle proprie ragioni per mano dei Giudici di Piazza Cavour.
La donna, operatrice di sportello in servizio presso l’ufficio postale di Villaricca e, successivamente, di Giugliano in Campania, proponeva ricorso contro la datrice di lavoro e contro INAIL, al fine di ottenere il risarcimento del danno biologico patito, quale conseguenza di dieci rapine consumate presso i menzionati uffici postali, alla presenza della lavoratrice, tra l’anno 1985 e l’anno 2005.
Lamentava nello specifico la signora un disturbo post-traumatico da stress di grado grave, stabilizzatosi solo nel 2005, momento conclusivo dello sfortunato periodo temporale costellato dalle rapine.
Il Tribunale di Napoli, in parziale accoglimento della domanda, riconosciuta la responsabilità di Poste Italiane per i danni occorsi alla dipendente, condannava la società al relativo risarcimento, liquidato nella misura di Euro 23.268,80.
La Corte di Appello di Napoli rigettava il gravame interposto dalla società datrice di lavoro.
Osservavano i giudici di secondo grado che era effettivamente presente, all’interno dell’ufficio incriminato, una serie di misure di sicurezza quali l’impianto di telesorveglianza, la bussola multitransito, la cassaforte con apertura a tempo, la cassaforte con apertura programmabile, l’impianto di teleallarme e vari pulsanti “antirapina”; tuttavia, si trattava di misure dirette a non mandare “a buon segno” la rapina messa in scena dai criminali, ma non certo a tutelare l’integrità psicofisica dei dipendenti.
Il fine, dunque, non era certamente quello di proteggere i lavoratori dalle rapine ma di fare in modo che queste non recassero troppi danni alla azienda.
Concludevano il loro esame i giudici di primo e di secondo grado individuando una responsabilità contrattuale in capo alla persona dell’imprenditore, alla stregua dell’art. 2087 c.c., che pone un obbligo di garanzia in capo al datore di lavoro a tutela della persona del lavoratore, imponendo al primo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del secondo.
La società datrice di lavoro ricorreva dunque in Cassazione, eccependo che i dispositivi di sicurezza predisposti sarebbero stati gli unici che, ragionevolmente, potevano essere adottati nell’ufficio postale a scopo dissuasivo dell’intento criminoso; obiettavano altresì che i giudici di merito avrebbero addebitato alla società una ipotesi di responsabilità oggettiva, non considerando che la responsabilità datoriale deve essere necessariamente collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da una fonte legislativa, ovvero suggeriti dalle conoscenze tecniche del momento.
I Giudici di legittimità definivano la procedura con Ordinanza n. 15105 pubblicata lo scorso 15 luglio 2020 dalla Sezione Lavoro.
Osservava la Cassazione che la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 del codice civile, costituente “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione.
Per la qual cosa, in particolare nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa divenuta “pericolosa”, come nella fattispecie, a causa della numerose e continue rapine (ben dieci) subite dai dipendenti presso gli uffici postali di cui si tratta, la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell’art. 2087 c.c. non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva e tuttavia non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio.
A livello costituzionale, l’attività produttiva – oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene all’iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41 comma I della Costituzione) – è subordinata (ai sensi del secondo comma dello stesso art. 41), alla utilità sociale, che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, libertà e dignità.
Da ciò consegue che la concezione “patrimonialistica” dell’individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute – anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa-; momenti tutti che costituiscono il “centro di gravità del sistema”, ponendosi come valori apicali del nostro ordinamento.
Va altresì considerata la circostanza che l’omessa predisposizione dei dispositivi di sicurezza idonei a tutelare la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, si pone in violazione dell’art. 32 della Costituzione, che garantisce il diritto alla salute come primario ed originario dell’individuo.
E’ ulteriormente individuabile una violazione delle normative antinfortunistiche e dello stesso dettato dell’art. 2087 del codice civile.
Imponendo la tutela dell’integrità psicofisica del dipendente, si prevede un obbligo, in capo al datore di lavoro, che non si esaurisce nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure igienico-sanitarie o antinfortunistiche, ma attiene anche – e soprattutto – alla predisposizione di adempimenti concreti, volti a preservare i lavoratori dalla lesione di quell’integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro, anche in relazione ad eventi, pur se non collegati direttamente con il lavoro medesimo, ed alle probabilità di concretizzazione del conseguente rischio che tali eventi accadano.
Ebbene, nel caso sottoposto al proprio esame la Cassazione evidenziava come l’onere della prova gravava sul datore di lavoro, che avrebbe dovuto dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova liberatoria) derivato alla propria lavoratrice, attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche, di cui, correttamente, i giudici di merito hanno ravvisato la violazione.
Concludevano i Supremi Giudici confermando le valutazioni di primo e di secondo grado, dopo avere appunto evidenziato la mancanza della prova liberatoria da parte della società datrice di lavoro, trattandosi di responsabilità contrattuale per omessa adozione, ai sensi dell’art. 2087 c.c., delle opportune misure di prevenzione atte a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore sul luogo di lavoro.
Un secondo solo ….…
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