Si dedica alla cartomanzia in orario lavorativo… licenziamento si o no?

Qualche tempo fa Il Giornale denunciava il fatto che oltre tredici milioni di italiani si recassero da maghi, cartomanti, astrologi, indovini, per un “giro” di circa otto miliardi di euro annui.

La storia del ricorso al “paranormale” ed alla previsione del futuro si perde nella notte dei tempi.

Nella Pinacoteca Capitolina è custodita l’opera “La buona ventura” di Caravaggio (anni 1593/1595) nella quale il grande pittore ritrae una zingara che, con il pretesto di leggere la mano ad un ragazzo sprovveduto e ben vestito, mentre distraeva il giovane con una tecnica affabulatoria, gli sottraeva furtivamente l’anello dal dito della mano destra.

buona ventura di Caravaggio

Tanto è forte il richiamo del mondo dell’astrologia e dei tarocchi, che addirittura esistono casi in cui si pratica la lettura delle carte durante l’orario lavorativo!

Sul tema è intervenuta la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con Sentenza n. 24619 del 2 ottobre 2019.

La materia del contendere ineriva l’impugnativa di un licenziamento comminato per motivi disciplinari, perché la lavoratrice aveva dato seguito ad attività di cartomanzia a mezzo telefono durante l’orario di lavoro.

Inoltre, sempre la dipendente aveva dato seguito ad “abuso di potere”, consistito nell’introdurre nel negozio e nel farsi confezionare da una sarta di fiducia un abito identico a un modello in vendita; aveva messo da parte ed occultato capi di abbigliamento e altri oggetti destinati alla vendita; aveva indossato capi destinati alla vendita durante l’orario di lavoro; si era ripetutamente assentata dal negozio senza autorizzazione; aveva ripetutamente rimproverato e mortificato le colleghe alla stessa sottoposte, in qualità di gerente del punto vendita, in particolare non prestando soccorso a una commessa che si era sentita male ed anzi rivolgendole offese e costringendo due colleghe, che stavano consumando il pranzo sul tavolo del magazzino, a mangiare su di un cartone appoggiato sul pavimento.

Invero, i giudici d’appello avevano ritenuto che taluni dei fatti addebitati alla lavoratrice non fossero stati sufficientemente provati e che, in ogni caso, valutati nel loro complesso, le circostanze contestate non risultassero di tale gravità da giustificare il licenziamento.

I Supremi Giudici ribaltano però le valutazioni rese nella fase di gravame.

Anzitutto viene ricordato che costituisce consolidato orientamento quello per il quale l’omesso esame di un fatto decisivo non può consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice di merito, rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice di individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove e scegliere, tra le risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione e dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, in cui un valore legale è assegnato alla prova.

Al riguardo si deve premettere, secondo consolidato orientamento, che “per stabilire se sussiste la giusta causa di licenziamento con specifico riferimento al requisito della proporzionalità della sanzione occorre accertare in concreto se – in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti, alla posizione che in esso abbia avuto il prestatore d’opera e, quindi, alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava – la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro” (come ribadito più volte dalla Cassazione, ad esempio con Sentenza n. 12798/2018, fra le più recenti).

Ebbene, nella specie, la sentenza impugnata aveva omesso tale specifica e concreta valutazione, esaminando bensì puntualmente e ricostruendo i singoli fatti oggetto di addebito in sede disciplinare, ma concludendo la loro disamina con la mera affermazione, per la quale essi (quanto meno i fatti da ritenersi sufficientemente provati ed effettivamente esistenti) non sarebbero comunque “di tale gravità, nel loro complesso, da giustificare il licenziamento”.

Evidenziavano in particolare i Supremi Giudici che la sentenza d’appello non aveva considerato, oltre alla molteplicità dei fatti ascritti, il ruolo svolto dalla dipendente oggetto dell’atto espulsivo.

Ella era la gerente del punto vendita, quindi le connesse responsabilità assumevano un rilievo maggiore tanto sul piano di un più intenso obbligo di diligenza, quanto sul piano del dovere di comportamenti tali da costituire positivi riferimenti per i propri sottoposti.

La condotta di quella lavoratrice andava valutata anche alla luce del “disvalore ambientale” che la stessa assumeva, in virtù della posizione professionale rivestita.

Con le proprie plurime condotte lesive del vincolo di fiducia con il datore di lavoro, la  dipendente assurgeva per gli altri colleghi a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto degli obblighi connessi al rapporto di lavoro.

Di certo, una “capo negozio” che di dedica alla cartomanzia via telefono in orario di lavoro, non può essere vista dai colleghi alla stessa sottoposti come un esempio di professionalità e diligenza per l’azienda.

Per tali ragioni, i Supremi Giudici cassavano la pronuncia di gravame e rinviavano nuovamente al giudice d’appello per una nuova valutazione, che tenesse in considerazione gli assunti sopra riferiti.

Un secondo solo ….…     

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