I pittori fiamminghi sono stati rappresentanti brillanti e salaci di una “proto-borghesia” dedita ai commerci ed alle prime movimentazioni finanziarie e, con esse, a sentimenti di avidità, avarizia, grettezza d’animo ed ingordigia.
In particolare, le figure degli usurai spesso sono state vittima di ritratti che assumevano i contorni di vere e proprie macchiette irridenti e scanzonate.
Diversi dipinti fiamminghi hanno tratteggiato gli “strozzini” come personaggi grotteschi, con fisionomie molto goffe, al limite del mostruoso ed antiestetico, quasi a volerne rivelare l’animo arido, bieco e dedito soltanto all’accumulo di danaro.
La Galleria Doria Pamphili di Roma ospita il dipinto “Gli usurai” di Quentin Metsys, datato 1520, nel quale l’artista pone l’accento sullo sguardo arcigno dei protagonisti dell’opera, con corporature deformi e sorrisi che lasciano trasparire pensieri ben lontani da valori “cortesi” e da un briciolo di umanità.
Delle volte, tuttavia, i creditori agiscono con tutte le buone intenzioni e tutto sono fuorché persone torve ed arcigne, ma magari rivendicano il loro diritto alla restituzione del prestito fondandolo su elementi giuridici ed umani ineccepibili.
Al contrario, potrebbero essere le persone dei debitori ad assumere i contorni degli “approfittatori”.
Un caso trattato pochi giorni fa dalla Cassazione è emblematico.
Si tratta della causa definita dalla Sezione Terza Civile con Ordinanza n. 24693 del 5 novembre 2020.
Due coniugi proposero opposizione a precetto davanti al Tribunale di Bergamo, contestando la richiesta creditoria avversaria, che era fondata su 21 effetti cambiari (dell’importo di euro 990 ciascuna per totali euro 22.211,40); i due debitori precettati eccepivano l’intervenuto pagamento di ogni importo rivendicato con quelle cambiali, fondando la loro contestazione tramite la produzione di una serie di assegni dal valore complessivo di euro 34.040,00.
Il creditore, a sua volta, replicava che tali assegni erano relativi ad altre poste debitorie, diverse dalle 21 cambiali azionate; produceva inoltre una dichiarazione con cui uno dei due soggetti precettati si era riconosciuto comunque debitore nei suoi confronti per un importo totale di euro 65.340,00.
Il Tribunale di Bergamo accolse l’opposizione e dichiarò nullo il precetto, ritenendo che, a fronte degli assegni prodotti dagli opponenti, sarebbe spettato al creditore opposto provare la sussistenza di altri rapporti obbligatori a cui imputare tali pagamenti.
Dello stesso avviso fu la Corte d’Appello di Brescia.
Sconfitto nei due gradi di merito, il creditore non si diede per vinto e propose ricorso avanti ai Supremi Giudici.
Sia premesso che in tale controversia s’impone l’applicazione di due articoli cardine del codice civile: l’art. 1993 e l’art. 2697.
L’art. 1993 cod. civ. statuisce:
Chi ha più debiti della medesima specie verso la stessa persona, può dichiarare, quando paga, quale debito intende soddisfare.
In mancanza di tale dichiarazione, il pagamento deve essere imputato al debito scaduto; tra più debiti scaduti, a quello meno garantito; tra più debiti ugualmente garantiti, al più oneroso per il debitore; tra più debiti ugualmente onerosi, al più antico. Se tali criteri non soccorrono, l’imputazione è fatta proporzionalmente ai vari debiti.
L’ancor più noto art. 2697 cod. civ. statuisce:
Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.
Ebbene, il creditore ricorrente in Cassazione contestava proprio la violazione e falsa applicazione degli artt. 1193 e 2697 cod. civ., consistita nell’aver fatto la Corte d’appello erronea applicazione dei criteri legali di riparto dell’onere della prova: ad avviso del ricorrente, il giudice del gravame avrebbe errato nel porre a suo carico l’onere di provare che i pagamenti effettuati dai debitori (provati da quest’ultimi mediante assegni) fossero da imputare a rapporti diversi da quelli azionati con il precetto.
La Cassazione diede ragione al creditore che agiva a buon diritto con l’atto di precetto.
Numerosi arresti giurisprudenziali hanno già chiarito il principio secondo cui, quando il convenuto per il pagamento di un debito dimostri di aver corrisposto una somma di denaro idonea all’estinzione del medesimo, spetta al creditore, il quale sostenga che il pagamento sia da imputare all’estinzione di un debito diverso, allegare e provare di quest’ultimo l’esistenza, nonché la sussistenza delle condizioni necessarie per la dedotta diversa imputazione.
Tuttavia, tale declaratoria convive con l’ulteriore principio, secondo il quale nel caso in cui il debitore eccepisca l’estinzione del debito fatto valere in giudizio per effetto dell’emissione di più assegni bancari – implicando tale emissione la presunzione di un rapporto fondamentale idoneo a giustificare la nascita di un’obbligazione cartolare – resta a carico del debitore convenuto l’onere di superare tale presunzione, dimostrando il collegamento tra il precedente debito azionato ed il successivo debito cartolare, con la conseguente estinzione del primo per effetto del pagamento degli assegni.
Gravava dunque sui debitori opponenti l’onere di dimostrare con precisione e puntualità il collegamento tra il credito azionato e gli assegni da loro emessi.
Nel caso di specie, peraltro, il preteso pagamento veniva dedotto mediante produzione di assegni aventi date ed importi non corrispondenti a quelli delle cambiali: ciò non doveva essere ritenuto sufficiente per ribaltare l’onere probatorio ed accollarlo al creditore, spettando invece ai debitori opponenti dimostrare il collegamento degli assegni da loro prodotti con il credito precettato.
Tale collegamento, in conformità alla giurisprudenza della Suprema Corte, può essere apprezzato sotto diversi profili, tra i quali si annoverano la non significativa anteriorità delle date degli assegni
rispetto alla esigibilità del credito e la conformità degli importi rispetto ai titoli di credito azionati.
Nel caso di specie, invece, la Corte d’appello affermava espressamente che spettava al creditore opposto, l’onere di provare il credito diverso al quale imputare i pagamenti dimostrati per mezzo degli assegni bancari; ma, così facendo, il giudice del gravame ha disatteso il consolidato orientamento sopracitato.
La sentenza della Corte d’Appello affermava che i debitori opponenti avrebbero dimostrato l’esistenza di un collegamento: ma tale “collegamento” era malamente circoscritto alla sola coincidenza soggettiva dell’emittente degli assegni con l’avallante delle cambiali, mentre quello che gli opponenti avrebbero dovuto dimostrare era invece di carattere oggettivo, dovendo riguardare il titolo del pagamento effettuato e la sua precisa coincidenza col credito del quale è stato intimato il
pagamento con l’atto di precetto.
La Corte di Cassazione dunque rimandava la questione alla Corte d’Appello quale giudice del rinvio ma in diversa composizione, al fine di rispondere al seguente principio di diritto:
“quando il convenuto per il pagamento di un debito dimostri di aver corrisposto a mezzo di assegni una somma di denaro in tesi idonea all’estinzione di quello, non spetta al creditore, il quale sostenga che il pagamento sia da imputare all’estinzione di un debito diverso, allegare e provare di quest’ultimo l’esistenza, nonché la sussistenza di tutte le condizioni necessarie per la dedotta diversa imputazione, atteso che, implicando l’emissione di assegni la presunzione di un rapporto fondamentale idoneo a giustificare la nascita di un’obbligazione cartolare, resta a carico del debitore convenuto l’onere di superare tale presunzione, dimostrando in modo puntuale e preciso il collegamento, anche da un punto di vista oggettivo, tra il precedente debito azionato ed il successivo debito cartolare, solo a tanto conseguendo l’estinzione del primo per effetto del pagamento degli assegni”