Il Novecento è stato un secolo di grandi riflessioni sull’incomunicabilità e sulla natura solitaria dell’esistenza umana, che non trova appagamento neppure nel rapporto di coppia.
Partendo dal pensiero del grande Jean Paul Sartre, passando per i romanzi di Pirandello, fino a giungere alle opere d’arte, la tematica dell’isolamento proprio dell’uomo contemporaneo ha avuto sviluppi notevoli.
Il famosissimo quadro Gli Amanti di René Magritte del 1928, costudito al Moma di New York, è forse la metafora più riuscita dell’affannosa ricerca di completamento da parte dell’uomo e della donna, celebrata nell’unione passionale, ma sempre velata da una barriera mentale di fondo, espressa mirabilmente dai lenzuoli che cingono le teste dei due appassionati compagni d’amore.
Forse che l’adulterio è indice proprio di quell’affannosa ricerca dell’essere umano di dare un significato alla propria esistenza, di trovare, nella scoperta dell’altro da sé, un motivo del vivere?
Fatto sta che il tradimento è sempre stato all’ordine del giorno nelle vite umane.
Il filoso Betrand Russell evidenziava:
“la psicologia dell’adulterio è stata falsata dalla morale convenzionale, che esclude, nei paesi monogami, che l’attrazione per una persona possa coesistere con il serio affetto per un’altra. Tutti sanno che questo è falso”
Ma allora sono le leggi dello Stato, o le regole della morale, o, ancora, i dogmi della religione, a frenare in un certo qual modo il tradimento costante in cui incorre sempre l’essere umano?
Pare quasi che il diritto corra sempre dietro a questi principi, tentando un’affannosa sintesi delle dinamiche relazionali e dell’esasperato individualismo, che da sempre ha animato l’azione dell’essere umano.
Il rapporto di coniugio, pur consacrato sotto i vincoli della fedeltà, dell’assistenza morale e materiale, e della coabitazione, si scontra, come se si trovasse davanti ad uno specchio, con i valori propri della libertà individuale, fino a sviluppare un complicato gioco di bilanciamenti tra obblighi propri del rapporto di coppia, da un lato, e spinte individualistiche, dall’altro lato.
L’articolo 2 della Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Ma anche parlando di “formazioni sociali”, si parte sempre dall’individuo: è l’uomo singolo che si afferma nella socialità, nelle relazioni umane, nel rapporto matrimoniale, nelle convivenze, nei gruppi.
Ed è quando subentra la crisi di coppia in seguito ad un tradimento che appare ancor più arduo trovare un bilanciamento tra le diverse posizioni dei coniugi.
Non può certo essere sottaciuta la circostanza che il mancato rispetto dei doveri coniugali, invocato per ipotesi dal coniuge tradito davanti al Tribunale, debba essere sempre rapportato alle garanzie che l’ordinamento conferisce alla libera esplicazione della personalità dell’individuo, non foss’altro perché onnipresente ed intangibile è il diritto di ogni coniuge di richiedere la separazione in ogni momento della vita matrimoniale, interrompendo di conseguenza la coabitazione ed i vincoli di assistenza morale e materiale.
Si tratta di porre su di un piatto della bilancia, da un lato, il diritto del coniuge danneggiato dal tradimento di chiedere un eventuale risarcimento (al di là dell’eventuale pronuncia di addebito), dall’altro lato, il diritto di autodeterminazione del coniuge che invece ha dato vita al tradimento medesimo.
Sia precisato anzitutto che la rottura in sé e per sé del rapporto matrimoniale, pur se foriera di afflizioni, dolori e mancanze morali e materiali, non è risarcibile all’interno dell’ordinamento.
Allo stesso modo, l’infedeltà in sé e per sé non è generatrice di risarcimento verso chi rimane vittima dell’adulterio.
Occorre sempre un quid pluris.
Va dimostrato cioè che l’infedeltà, per le sue modalità di estrinsecazione, ha dato origine alla lesione di un diritto costituzionalmente rilevante del coniuge tradito, quali il diritto alla dignità, al decoro, all’onore, alla salute personale.
Occorre ad esempio che il tradimento si sia stato manifestato attraverso condotte denigratorie della persona del coniuge tradito, perché in ipotesi le dinamiche dell’adulterio sono state divulgate a terze persone, oppure il coniuge è rimasto vittima di una macchinazione a proprio danno, o, ancora, ha ricevuto commenti denigratori.
Secondo un costante filone della giurisprudenza di merito, la risarcibilità del tradimento va limitata alle fattispecie nelle quali l’adulterio si sia realizzato in modo ostentato o plateale, tramite condotte disdicevoli esibite in pubblico, o per mezzo di azioni umilianti o mortificatorie.
Considerazioni di questo genere fanno quasi sembrare un retaggio medievale quello che erano le statuizioni degli articoli 559 e 560 del codice penale: il primo articolo puniva con la reclusione fino ad un anno la moglie adultera e, con la stessa pena, il correo dell’adultera, elevando la pena fino a due anni in caso di relazione adulterina. Il secondo articolo puniva con la reclusione fino a due anni il marito che tiene una concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove, reprimendo con la medesima pena anche la concubina.
Occorreva attendere il biennio 1968/1969 per le declaratorie d’incostituzionalità delle norme qui sopra rammentate.
Tornando all’attualità, la Cassazione si è nuovamente occupata della tematica dell’adulterio e della richiesta risarcitoria promanante dal coniuge tradito.
Si tratta dell’Ordinanza 26383 resa dalla Sesta Sezione Civile lo scorso 19 novembre 2020.
Un marito tradito impugnava la Sentenza resa dalla Corte di Appello di Salerno con cui veniva dichiarata la separazione personale dei coniugi con addebito alla moglie adultera, ma veniva contestualmente rigettata la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale pretesa dal marito.
I giudici di merito avevano motivato l’addebito per l’infedeltà coniugale accertata in capo alla donna, quale causa determinante dell’intollerabilità della convivenza matrimoniale, respingendo però la richiesta risarcitoria per non avere il marito provato il danno ingiusto ed il nesso causale con la condotta illecita della moglie, non riscontrabile nella mera infedeltà coniugale, essendo lo stato depressivo in cui incappava l’uomo riferibile alla separazione in sé piuttosto che al tradimento della moglie.
I Supremi Giudici confermavano le valutazioni della Corte di Appello.
Anzitutto ribadivano che la natura giuridica del dovere di fedeltà derivante dal matrimonio implica che la sua violazione non sia sanzionata unicamente con le misure tipiche del diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, ma possa dar luogo a risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti, ai sensi dell’art. 2059 del codice civile, senza neppure che la mancanza di pronuncia di addebito sia a ciò preclusiva.
Tuttavia, la Cassazione rilevava che andava comunque fornita prova circostanziata che la condizione di afflizione indotta nel coniuge superasse la soglia della tollerabilità e si traducesse, pe le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provocava, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all’onore, o alla dignità personale.
Prova che nel caso di specie non veniva raggiunta e che comunque costituiva valutazione di fatto, non sindacabile dal giudice di legittimità.
Di qui il rigetto del ricorso proposto dal coniuge tradito.
Un secondo solo ….…
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