Provocare è un termine che può avere una duplice valenza.
Dal punto di vista del comportamento, si tratta sempre di un’azione (o di un’omissione) posta in essere con l’intento di suscitare l’altrui reazione, per lo più legata all’emotività ed all’impulso.
Ma dal punto di vista dei motivi generatori, la provocazione può essere “buona“, se stimola alla riflessione, apre gli occhi da troppo tempo sopiti di una persona, incita ad un cambiamento di rotta, oppure “cattiva“, se nasce dalla malizia o, peggio, da intenti criminali, volti ad ottenere una replica da parte del proprio interlocutore, al fine di indurlo in errore, generare nel medesimo una contro-offesa al fine di invocare un risarcimento, farlo cadere nella commissione di una condotta contraria alla legge.
L’arte contemporanea è piena zeppa di provocazioni.
Un artista che sicuramente può rappresentare l’emblema della provocazione è il padovano Maurizio Cattelan.
Nell’installazione “Untitled – I.N.R.I.” del 2009 un cavallo imbalsamato stramazza al suolo e sopra di esso si erge un cartello con sovra scritto il titulus crucis riportato dai Vangeli.
L’interpretazione della provocazione è lasciata tutta allo spettatore, o meglio, alla sua sensibilità.
Il Sindaco di Milano, ad esempio, vietò nel 2010 l’esposizione dell’opera a Palazzo Reale.
Tanti cattolici hanno gridato allo scandalo.
Personalmente, la riflessione che suscita questa composizione induce a riflettere come l’attuale “Re dei Giudei”, ossia la considerazione per la sacralità della vita, per la religione, sia stato ricondotto nelle fattezze di un cavallo abbattutosi al suolo, defunto: il feticcio dell’umanità attuale è un animale morto ed impotente.
Senz’altro, la provocazione artistica coglieva nel segno.
Ben diverse sono le provocazioni nel mondo del diritto, sulle quali l’ordinamento si pronuncia perché tutte di segno negativo.
Nel diritto penale, la provocazione viene presa in considerazione allorquando il legislatore detta la normativa in materia di diffamazione: l’art. 599 c.p. statuisce infatti la non punibilità per chi ha commesso un fatto inquadrabile come diffamazione nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso: ad esempio, non è punibile la reazione, pur offensiva, di una persona accusata in pubblico per un fatto non commesso.
In generale, lo stato d’ira viene considerato dal codice penale come attenuante, prevista dall’art. 62 n. 2, perché rappresentativo di un’azione conseguenziale ad un fatto ingiusto altrui.
In tale evenienza, configurandosi come concausa colposa dell’evento, la provocazione incide, diminuendola, sulla misura del risarcimento del danno; infatti, la circostanza attenuante della provocazione postula l’esistenza di un rapporto di causalità tra fatto ingiusto e stato d’ira del provocato, cui si collega l’azione delittuosa, nonché di proporzione e di adeguatezza tra l’azione iniziale del provocatore e quella successiva del provocato.
Quando la provocazione diventa bullismo: una chiarissima sentenza resa dai Supremi Giudici
Una pronuncia della Suprema Corte resa lo scorso 25 settembre 2019 è esemplare.
Si tratta della nota Sentenza della Sezione Terza Civile e rubricata al numero 22541 del 2019, un vero e proprio trattato esemplare di psicologia e teoria del comportamento umano, prima ancora che un intervento preciso e puntuale in punto di diritto.
Nel caso oggetto di valutazione dei giudici di legittimità, la provocazione costituiva un “quid pluris” rispetto ad una semplice azione iniziale, posta in essere dal soggetto provocatore, perché si trattava di un comportamento di bullismo, reiterato nel tempo e foriero di danno ingiusto, posto in essere ai danni del soggetto successivo offensore.
Nel corso di un litigio, un ragazzo minorenne riceveva da un altro minore un pugno in faccia, che gli provocava l’avulsione traumatica dell’incisivo superiore laterale di sinistra, la lussazione dell’incisivo centrale ed escoriazioni al labbro.
I giudici di merito riconoscevano il diritto al pieno risarcimento del danno patito in conseguenza del pugno inferto.
Non consideravano, però, il substrato storico ed i numerosi antefatti di eventi che inducevano il minore offensore a reagire in quel modo violento (pur assolutamente ingiusto).
I Supremi Giudici censurano il ragionamento della Corte d’Appello, la quale aveva del tutto sbrigativamente negato qualunque rilievo al comportamento ripetutamente provocatorio ed offensivo del ragazzo offeso dal pugno, limitandosi ad affermare paternalisticamente che il danneggiante non avrebbe dovuto reagire alle provocazioni ricevute.
La regola di causalità applicata dal giudice, adeguata all’ipotesi in cui il destinatario di una provocazione, anziché reagire istintivamente e contestualmente alla provocazione ricevuta, commisurandone modi e tempi, covi una vendetta che sfoci in un atto di aggressione violenta che, sfilacciando la dipendenza causale con il fatto che l’aveva originata, si pone alla base di una nuova ed autonoma sequenza causale, si rileva inappagante nel caso sottoposto all’attenzione della Cassazione.
Infatti, laddove un minore sia stato reiteratamente provocato e dileggiato e reagisca alle offese di cui è stato vittima, era doveroso applicare la regola di esperienza secondo la quale colui che è reiteratamente aggredito, reagisce come può per far cessare l’altrui condotta lesiva.
Quando l’autore della reazione sia un adolescente, vittima di comportamenti prevaricatori, aggressivi, mortificanti e reiterati nel tempo, occorre, in aggiunta, tener conto che la sua personalità non si è ancora formata in modo saldo e positivo rispetto alla sequela vittimizzante cui è stato supposto.
E’ prevedibile, infatti, che la sua reazione possa risolversi, a seconda dei casi, nell’adozione di comportamenti aggressivi internalizzati che possono trasformarsi, con costi anche particolarmente elevati in termini emotivi, in forme di resilienza passiva ed autoconservative, evolvere verso forme di autodistruzione oppure tradursi, come è avvenuto nel caso di specie, nell’assunzione di comportamenti esternalizzati aggressivi.
Pur dovendosi neutralizzare e condannare l’istinto di vendetta del minore bullizzato, è innegabile che la risposta ordinamentale non possa essere solo quella della condanna dell’atto reattivo come comportamento illecito a se stante, ignorando le situazioni di privazione e di svantaggio che ne costituivano il sostrato, non solo perché l’ignoranza e la sottovalutazione possono (persino) attivare un circolo negativo di vittimizzazione ulteriore, ma anche perché il bullismo non dà vita ad un conflitto meramente individuale, come dimostrano le rilevazioni statistiche, e richiede un coacervo di interventi coordinati che, oltre a contenere il fenomeno, fungano da diaframma invalicabile che si interponga tra l’autore degli atti di bullismo e le persone offese, anche onde rendere del tutto ingiustificabile la reazione di queste ultime.
In assenza di prove circa come le istituzioni, la scuola, in particolare, fossero intervenute per arginare il fenomeno del bullismo e per sostenere il minore che reagiva sferrando il pugno, quindi mancando anche la prova della ricorrenza di espressioni di condanna pubblica e sociale del comportamento adottato dai cosiddetti bulli, non era legittimo attendersi da parte del ragazzo bullizzato, adolescente, una reazione razionale, controllata e non emotiva.
Nel caso di specie, non solo non è fuori luogo, ma è persino doveroso che l’ordinamento si dimostri sensibile verso coloro che sono esposti continuamente a condizioni vittimizzanti idonee a provocare e ad amplificare le reazioni rispetto alle sollecitazioni negative ricevute; soprattutto ove la vittima venga privata del meccanismo repressivo istituzionale dell’illecito e, come sembra sia avvenuto in questo caso, venga lasciata sola nell’affrontare il conflitto.
Non una sola parola è stata spesa, infatti, per chiarire se la scuola si fosse fatta carico di predisporre interventi di contrasto della piaga del bullismo attraverso un programma serio e articolato fondato su specifiche direttive psicopedagogiche e su forme di coinvolgimento dei genitori.
La Cassazione concludeva evidenziando che l’accertamento di una responsabilità individuale decontestualizzata non fosse in grado di garantire una giustizia riparativa efficace e, nell’attesa che si diffondano forme di giustizia riparativa specificamente calibrate sul fenomeno del bullismo, ferma la necessaria condanna tanto dei comportamenti prevaricatori e vessatori quanto di quelli reattivi, la risposta giuridica, nel caso di specie, non avrebbe dovuto ignorare le condizioni di umiliazione a cui l’adolescente in questione era ripetutamente sottoposto.
Per quanto al danno patito dal ragazzo provocatore e vittima del pugno, la Suprema Corte dava seguito a considerazioni altrettanto puntuali ed ineccepibili: allo scopo di pervenire ad una soluzione che sia tra le disponibili la migliore e la più aderente alle caratteristiche uniche del caso concreto – è permesso al giudice, quando non sia più in questione l’accertamento del nesso di derivazione causale, perché il danno è eziologicamente ascrivile alla condotta colpevole dell’agente, nella fase di determinazione del danno-conseguenza risarcibile, sul piano della determinazione dell’ammontare del quantum risarcitorio dovuto, servirsi della valutazione equitativa ex art. 2056 del codice civile e determinare, quindi, la compensazione economica ritenuta socialmente adeguata del pregiudizio, cioè quella che, a fronte di un danno certo – la valutazione equitativa non può surrogarsi alla prova della ricorrenza del danno – ne determini l’ammontare tenuto conto della compensazione che la coscienza sociale in un determinato momento storico ritenga equa, tenuto conto di tutte le specificità del caso concreto ed in particolare dei vari fattori incidenti sul verificarsi della lesione e sulla sua gravità.
Ed è sulla base di tali principi di diritto che i giudici di Piazza Cavour rimettevano nuovamente la causa davanti alla Corte d’Appello, onde ridimensionare grandemente il quantum da risarcire al ragazzo pur vittima, ma riconosciuto provocatore ed autore delle condotte bullizzanti.