L’Antico Caffè Greco è uno dei punti di ritrovo più ricercati dagli intellettuali romani, che in pieno centro godono della bellezza della città eterna sorseggiando un caffè e dedicandosi a relazioni sociali.
Un dipinto del pittore austriaco Ludwig Johann Passini del 1856, custodito presso il museo Hamburger Kunsthalle in Amburgo, ricorda i raduni degli uomini d’arte e d’intelletto nel bar, che tuttora regala momenti di sana convivialità in quel di Via Condotti.
La degustazione del caffè è un momento quasi sacro della giornata, ma in un caso purtroppo è stato fonte di danno, per una lavoratrice di una scuola elementare, appartenente al corpo non docente del Comune di Acireale.
Quest’ultima, facendo ingresso nella saletta relax dove erano presenti altri lavoratori che avevano messo una macchinetta del caffè sul fornelletto, purtroppo rimaneva vittima dell’esplosione improvvisa della caffettiera, che finiva per procurare gravi danni al volto della donna.
Il caso è stato posto all’attenzione della Sezione Lavoro della Suprema Corte, la quale ha definito la vertenza con Ordinanza n. 23146 del 22 ottobre 2020.
In sede di appello veniva accertato che l’infortunio fosse avvenuto in occasione di lavoro, in quanto la dipendente comunale era intenta a svolgere le proprie mansioni.
Veniva invece ha escluso il cosiddetto “rischio elettivo” consistente in una condotta abnorme, volontaria ed arbitraria del lavoratore, che spezza il nesso causale tra datore di lavoro e danno subito perché non collegata alla normale attività lavorativa.
Più in particolare, nel caso di specie veniva accertato che l’azione che aveva determinato l’evento non era stata compiuta dalla donna, la quale non aveva posto in essere alcuna condotta, volontaria ed abnorme, tale da poter essere additata responsabile o quanto meno compartecipe dell’evento lesivo.
La responsabilità dell’incidente veniva addebitata al Ministero dell’Istruzione e non al Comune di Acireale perché la lavoratrice rendeva la sua prestazione in favore dell’istituto didattico statale, sul quale gravava l’obbligo imposto dall’articolo 2087 del codice civile, perché il Comune non esercitava il potere direttivo ed organizzativo né era in condizione di vigilare costantemente sulla sicurezza dell’ambiente di lavoro.
Vigilanza e potere direttivo che invece spettavano al dirigente del Ministero, che era tenuto a costituirsi parte attiva nella verifica dei dipendenti dell’istituto scolastico.
Sempre il giudice d’appello aveva evidenziato che il Ministero non aveva dimostrato di avere apprestato tutte le misure necessarie ad evitare il danno giacché, al contrario, dall’istruttoria era emerso che la preparazione del caffè all’interno del locale destinato agli operatori scolastici era abituale ed era stata consentita dal datore di lavoro, il quale non aveva vigilato, come era suo onere, per impedire che nell’ambiente di lavoro si realizzassero situazioni pericolose per i lavoratori.
Alla donna veniva dunque riconosciuta la causa di servizio ed in più il Ministero dell’Istruzione era chiamato a liquidare a titolo di risarcimento il danno per intero patito dalla lavoratrice.
I Supremi Giudici, chiamati a verificare gli esiti del giudizio d’appello su istanza proprio dell’ente ministeriale, anzitutto rammentavano le disposizioni che imponevano agli enti locali la “fornitura” del personale “ATA”, realizzando una scissione fra rapporto organico e rapporto di servizio, non dissimile da quella che si verifica, sia pure in via temporanea, nell’ipotesi del “comando”, caratterizzato, appunto, dalla dissociazione fra titolarità del rapporto d’ufficio ed esercizio dei poteri di gestione, conseguente all’inserimento del dipendente, sia sotto il profilo organizzativo funzionale, sia sotto quello gerarchico e disciplinare, nell’amministrazione di destinazione, a favore della quale egli presta esclusivamente la sua opera.
Da suddetta scissione discende che l’amministrazione statale beneficiaria della prestazione non poteva essere ritenuta estranea al rapporto contrattuale, come pretendeva invece il Ministero nelle proprie difese rese davanti ai Supremi Giudici, perché, al contrario, in quanto titolare del rapporto di servizio, l’ente assumeva tutti i poteri e gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro.
Nel merito, la Cassazione poneva l’attenzione sulla circostanza che la posizione di garanzia, a tutela dell’incolumità del personale dipendente ex art. 2087 cod. civ., gravasse innanzitutto sul dirigente, il quale era tenuto a vigilare ed a richiedere l’intervento dell’ente proprietario dell’edificio ove fossero state necessarie modifiche strutturali.
Tali presìdi non erano stati applicati nel caso di specie, con evidente responsabilità in capo all’amministrazione ministeriale.
I giudici di Piazza Cavour avevano modo di richiamare anche il principio di diritto secondo cui in materia di infortuni sul lavoro, al di fuori dei casi di rischio elettivo, nei quali la responsabilità datoriale è esclusa, qualora ricorrano comportamenti colposi del lavoratore, trova applicazione l’art. 1227 comma 1 del codice civile, che così recita:
Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate
Tuttavia, l’eventuale condotta incauta del lavoratore non comporta un concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni qual volta la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell’evento dannoso; in particolare, tanto avviene quando l’infortunio si sia realizzato per l’osservanza di specifici ordini o disposizioni datoriali che impongano colpevolmente al lavoratore di affrontare il rischio, quando l’infortunio scaturisca dall’integrale impostazione della lavorazione su disposizioni illegali e gravemente contrarie ad ogni regola di prudenza o, infine, quando vi sia inadempimento datoriale rispetto all’adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili “ex ante” ed idonee ad impedire, nonostante l’imprudenza del lavoratore, il verificarsi dell’evento dannoso.
I giudici di appello, con accertamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, avevano escluso il rischio elettivo, perché la caffettiera esplosa era stata posta sul fornello non dalla donna infortunata, bensì da terzi lavoratori non identificati; inoltre sempre i giudici di gravame avevano anche ritenuto provato che l’attività pericolosa si svolgeva in modo sistematico all’interno dell’istituto, sicché, evidentemente, il datore di lavoro, che non l’aveva impedita, era venuto meno al suo dovere di vigilare e di emanare specifiche direttive volte a prevenire il verificarsi di eventi dannosi.
Valutando suddetta situazione fattuale alla luce del principio di diritto sopra richiamato, si deve escludere alla radice ogni rilevanza di possibili obiezioni volte ad individuare un possibile concorso di colpa in capo alla lavoratrice vittima dell’incidente.
Ciò perché sebbene il legislatore, in tema di sicurezza, abbia posto precisi obblighi anche a carico del lavoratore (come disposto dall’art. art. 20 del D. Lgs. n. 81 del 2008), impegnandolo ad osservare le misure precauzionali ed a segnalare eventuali condizioni di pericolo, tuttavia non ha certo inteso attenuare, attraverso la previsione di detto obbligo di collaborazione, il debito di sicurezza che grava sul datore, nella specie non adempiuto perché, ove il dirigente avesse vigilato come era suo onere ed impartito le opportune direttive, l’evento lesivo non si sarebbe verificato.
Ne derivava la piena conferma del risarcimento integrale in favore della dipendente comunale rimasta vittima dell’inopinata esplosione della caffettiera.
Un secondo solo ….…
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