Lo straordinario pittore olandese Rembrandt realizzava nel 1653 un’opera di gran pregio, Aristotele che contempla il busto di Omero, oggi custodita al museo Metropolitan di New York.
Il filosofo greco viene raffigurato con abiti del tutto fuori dal suo tempo storico, di provenienza esotica, mentre riceve l’illuminazione dalla contemplazione del busto del poeta Omero.
Di certo le dissertazioni aristoteliche hanno avuto un ruolo predominante anche nel campo del diritto, della logica giuridica, della giustizia e della morale.
Il pensatore di Stagira fu tra i primi ad enucleare in modo netto la distinzione tra “equità” e “giustizia”: l’equità si rapporta alla giustizia come una forma particolare di questa, l’equo è un correttivo del giusto, che si rende necessario quando si debba applicare una legge formulata in termini universali, che non può prevedere tutti i casi particolari nella loro concretezza e quindi non può adattarsi che in maniera imperfetta alle singole circostanze.
La “revisione” operata dall’equità sul concetto di giustizia si concretizza in un adattamento della norma universale ai casi particolari ed alle vicende individuali, svincolando il dettato legislativo dalla rigidità propria della declaratoria normativa letterale.
In dottrina vanno distinte due forme di equità:
- un’equità integrativa, che si ha quando la legge rinuncia a predisporre la disciplina legale di particolari aspetti di una fattispecie e preferisce affidare al giudice il compito di intervenire caso per caso;
- un’equità sostitutiva, che comporta l’attribuzione al giudice del potere di sostituire integralmente l’applicazione della norma con una propria decisione equitativa.
Un’applicazione del concetto di equità integrativa è fornita dall’articolo 1226 del codice civile, che statuisce che il danno che non possa esser provato nel suo preciso ammontare, debba esser liquidato dal giudice tramite una valutazione equitativa.
Una recentissima pronuncia della Suprema Corte è illuminante per comprendere con precisione quando si possa ricorrere ad un’istanza risarcitoria in forma equitativa davanti all’autorità giurisdizionale.
Si tratta dell’Ordinanza 26051 dello scorso 17 novembre 2020 resa dalla Sesta Sezione Civile.
La vicenda sottesa al dictum dei Supremi Giudici riguarda l’azione giudiziale promossa da una donna, comproprietaria di un fondo del quale l’amministrazione di un Comune del Messinese ordinò l’espropriazione per pubblica utilità; sul fondo esisteva una “struttura metallica amovibile” che venne abbattuta dall’amministrazione comunale; il provvedimento ablatorio venne annullato dal giudice amministrativo; al ché la signora chiese al Tribunale la condanna del Comune procedente al risarcimento del danno patito in conseguenza della distruzione della struttura amovibile.
Va precisato anzitutto che tale domanda oggi andrebbe senz’altro proposta davanti al giudice amministrativo.
Al momento dell’introduzione del giudizio, tuttavia, non esisteva l’art. 7 della Legge 205 del 2000 che, novellando l’art. 7 comma III della Legge 1034/1971, stabilì:
“il Tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”.
Spettava quindi al giudice ordinario conoscere della domanda di risarcimento del danno causato
dal provvedimento illegittimo per la donna istante davanti ai Supremi Giudici.
In merito alla domanda risarcitoria per intervenuta distruzione dell’istallazione di privata proprietà, la signora rivendicava il proprio buon diritto ad ottenere un ristoro in via equitativa.
I Giudici di Piazza Cavour evidenziavano, al riguardo, che la liquidazione equitativa del danno ha natura sussidiaria, perché presuppone l’esistenza d’un danno oggettivamente accertato.
Essa attribuisce al giudice di merito non già un potere arbitrario, ma una facoltà di integrazione in via equitativa della prova semipiena circa l’ammontare del danno.
Di certo la liquidazione equitativa non può detenere natura “sostitutiva”, perché ad essa non può farsi ricorso per sopperire alle carenze o decadenze istruttorie in cui le parti fossero incorse (tanto colpevoli quanto incolpevoli, sopperendo in quest’ultimo caso il rimedio della rimessione in termini, e non della liquidazione equitativa).
E’ dunque evidente che in tanto è consentito al giudice il ricorso alla liquidazione equitativa, in quanto sia stata previamente dimostrata l’esistenza certa, ovvero altamente verosimile, d’un effettivo pregiudizio.
E’ l’impossibilità di quantificare un danno certamente esistente che rende possibile il ricorso alla stima equitativa.
Se, invece, è l’esistenza stessa d’un pregiudizio economico ad essere incerta, eventuale, possibile ma non probabile, spazio non v’è alcuno per l’invocabilità dell’art. 1226 del codice civile.
Ne consegue che in tanto il giudice di merito può avvalersi del potere equitativo di liquidazione del danno, in quanto abbia previamente accertato che un danno esista, indicando le ragioni del proprio convincimento.
Ciò vuol dire che, nel caso di danno patrimoniale consistito nella distruzione di un bene, il ricorso alla liquidazione equitativa in tanto è ammissibile, in quanto sia certo (per essere stato debitamente provato da chi si afferma danneggiato) che la cosa distrutta avesse un concreto valore oggettivo, e non meramente ipotetico o d’affezione.
Ulteriore presupposto per l’applicazione dell’art. 1226 del codice civile è che l’impossibilità (o la rilevante difficoltà) nella stima esatta del danno sia:
(a) oggettiva, cioè positivamente riscontrata e non meramente supposta;
(b) incolpevole, cioè non dipendente dall’inerzia della parte gravata dall’onere della prova.
La liquidazione equitativa del danno costituisce infatti un rimedio fondato sull’equità c.d. “integrativa” o “suppletiva”: l’equità, cioè, intesa non quale principio che si sostituisce alla norma di diritto nel caso concreto, ma quale principio che completa la norma giuridica.
L’equità integrativa costituisce, per l’opinione unanime della dottrina, uno strumento di equo contemperamento degli interessi delle parti, nei casi dubbi.
Se dunque l’equità integrativa ha lo scopo di contemperare i contrapposti interessi, è evidente che essa fallirebbe del tutto il suo scopo, se vi si potesse ricorrere anche quando la stima del danno sia non impossibile, ma soltanto difficile; ovvero quando la stima del danno non si sia potuta compiere per la pigrizia od il mal talento delle parti o dei loro procuratori.
In simili casi, infatti, non vi sono contrapposti interessi da contemperare, tutti egualmente meritevoli di tutela: al contemperamento degli interessi si sostituisce qui l’applicazione rigorosa del principio di autoresponsabilità, in virtù del quale ciascuno deve subire le conseguenze giuridiche delle proprie azioni od omissioni.
Qualsiasi diversa interpretazione dell’art. 1226 c.c. si porrebbe in contrasto col precetto costituzionale che garantisce la parità delle parti e la terzietà del giudice, come stabilito dall’art. 111 della Costituzione.
Si applichino ora i principi appena esposti al caso di specie.
Per ammettere un risarcimento in forma equitativa del danno subito alla struttura di proprietà della donna, occorrerebbe poter essere certi:
a) che il manufatto del quale la ricorrente lamenta la distruzione avesse, al momento della perdita, un residuo valore d’uso o di scambio, e non fosse ridotto ad un mero rudere;
b) che la parte danneggiata nemmeno con l’uso dell’ordinaria diligenza avrebbe mai potuto dimostrarne il valore.
Ma né l’una, né l’altra di tali circostanze di fatto sono mai emerse nel giudizio di merito: la Corte d’appello ha infatti ritenuto “non impossibile”, da parte della ricorrente, dimostrare quali fossero la consistenza, il pregio, la destinazione, lo stato d’uso della struttura rimossa dall’amministrazione comunale.
Ne discese la doverosa reiezione delle istanze della ricorrente in Cassazione.